
da Venezia
C'è una curiosa, e funerea, rassomiglianza fra il linguaggio con cui Giuseppe Pandico, membro "dissociato", ma non "pentito", secondo sua precisa dichiarazione a riguardo, della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, e grande accusatore di Enzo Tortora nella vicenda processuale che rovinò la vita di quest'ultimo, e il linguaggio con cui la magistratura ne avalla la denuncia e le dà sostanza giuridica. È un italiano ampolloso e retorico, compiaciuto quanto assertivo, vagamente minaccioso, perversamente bizantino nel suo piegare ogni antitesi in una nuova logica di sintesi che salvi la tesi che, erroneamente, ne è alla base. È, naturalmente, un linguaggio cinematografico, quello scelto da Marco Bellocchio per il suo Portobello, di cui, fuori concorso, ieri sono stati presentati i primi due episodi, ma poiché si basa su testi e documenti d'epoca, dichiarazioni alla stampa, verbali processuali, interrogatori, arringhe, è tuttavia, e amaramente, un linguaggio vero, e qualche domanda, senza scadere nel qualunquismo, in proposito bisognerà pur farsela. Detto in altri termini, com'è possibile che in Italia l'antistato criminale si esprimesse con la stessa sintassi dell'ordinamento giuridico deputato a giudicarlo, condannarlo e mandarlo in carcere?
La stessa curiosa, quanto funerea somiglianza nel film si coglie anche in un altro elemento, l'Italia televisiva pasticciona e provinciale, da mercatino dell'usato dei sentimenti e delle emozioni, che fu la trasmissione televisiva Portobello, all'epoca la più popolare del Paese, e il suo contraltare di un'Italia politica ancora attraversata dagli ultimi quanto terribili conati di terrorismo, e tuttavia incapace di rinnovarsi, fedele a una logica di struzzo in grado di ingoiare ogni cosa, dal terremoto in Irpinia al sequestro Cirillo. Figuriamoci l'arresto di un presentatore televisivo, per quanto famoso potesse essere, ma senza santi politici in paradiso che lo potessero proteggere.

Quello che nel film non assomiglia a nessuno è proprio Enzo Tortora, reso molto bene e con sobrietà da Fabrizio Gifuni, anche lui però un personaggio funereo, per come si consumò l'orribile vicenda che di fatto lo uccise, un corpo avulso, per non dire un corpo estraneo all'interno di quella stessa televisione pubblica che lo aveva sì reso famoso, ma allo stesso tempo lo aveva sempre guardato con sospetto se non con fastidio: mosca bianca "liberale" nella lottizzazione che premiava i protegés dei due più grandi partiti, la Democrazia cristiana e il Partito comunista e di quel Partito socialista divenuto con Bettino Craxi l'altro dominus del potere; troppo colto, troppo critico e troppo indipendente per non essere a più riprese cacciato e all'ultimo "punito" con un programma considerato minore e di seconda fascia e che invece si rivelerà, per l'epoca, rivoluzionario e di un successo tale da dare allo stesso Tortora l'idea che non l'avrebbe mandato via più nessuno, se non lui stesso. Non aveva fatto i conti con la "giustizia" nelle vesti di un protagonismo giudiziario tanto cieco quanto innamorato narcisisticamente di sé stesso.
Nel film Bellocchio non fa sconti nemmeno ai mezzi di informazione che, tranne rare eccezioni, fecero all'epoca da cassa di risonanza delle tesi accusatorie dei pubblici ministeri, in una logica da cassetta delle lettere, più che di libera informazione, che in seguito sarebbe divenuta prassi comune.
Questa prima parte di Portobello si chiude con Tortora ancora in carcere e non ancora a processo.
Ciò che è avvenuto dopo, comunque, è noto, così come è noto che, grazie ai radicali, di cui Tortora era intanto divenuto una bandiera, ci sarà un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati vinto a furor di popolo, e però rimasto in pratica lettera morta. Nel voler fare un programma popolare, Tortora in fondo aveva visto giusto. Nel diffidare della classe politica anche.