Dramma Borgonovo colpito dal morbo che fa tremare il calcio

L’ex bomber di Como, Fiorentina e Milan ha deciso di rendere pubblica la malattia che lo costringe a parlare con gli occhi. Ma è solo l’ultimo di tanti casi che stanno colpendo gli ex giocatori

Stefano Borgonovo sorride. Non è vero. È una smorfia, la sua. È un ghigno. Forse non gli appartiene nemmeno. Come se ci fosse qualcuno, qualcosa a muovere le sue labbra, lo stesso qualcuno, la stessa qualcosa che ne ha addormentato e sgonfiato il corpo. Un demonio che si sta divertendo a bruciare, non si sa come, quando, perché, l’esistenza prima e la vita dopo, degli atleti, degli artisti, di uomini illustri, Mao Tse Tung, David Niven, Charles Mingus e gente di football, quasi tutti italiani, quasi una squadra, Signorini e Segato, Rognoni e Ocwirk, Soldan e Vincenzi, Lombardi e Nanni, Minghelli e Dipietropaolo, Canazza e Falco e Gritti e il piccolo gigante scozzese Jimmy Johnstone, tutti, improvvisamente, lentamente chiamati fuori dal gruppo e dal gioco, alle prese con una luce sempre più debole, la voce, i movimenti, la deglutizione, si fermano. La mente no, resta lucida, un messaggio perfido del diavolo, per concederti la speranza, per lasciarti marziano tra i terrestri. Gli occhi di Stefano Borgonovo poi, quelli sono utilissimi, preziosi strumenti per comunicare, le nuove tecnologie, la medicina che continua a correre, almeno lei, lascia aperta una finestra, una bocca di lupo.
Lo schermo del computer, dunque, sta di fronte a Borgonovo, disteso nel suo letto, riporta e ripete i pensieri e li trasforma in suoni chiamati parole, metalliche, impersonali ma decisive per restare attaccati alla vita ma in un tulle di emozioni forti. Immagini ultime di un uomo sfinito ma non finito, un colpo al fegato per chi osserva, per chi sapeva ma non vedeva e non voleva vedere, per chi adesso deve però aggiungere un altro nome e cognome all’elenco che sta diventando angoscioso. Stefano Borgonovo affetto da sla, gli americani pronunciano allo specchio questa malattia, la chiamano als, non muta la sua verità atroce, è l’acronimo di sclerosi laterale amiotrofica, il morbo di Gehrig. Non era un medico ricercatore, nemmeno uno scienziato. Era un uomo che giocava a baseball. E come. A New York Lou Gehrig, detto Iron Horse, la locomotiva, per come viaggiava da una base all’altra, diventò l’eroe con gli Yankees, teneva la mazza sbirciando il guanto del lanciatore e i movimenti degli altri difensori, aveva occhio vispo, sapeva correre ma sapeva anche battere come pochi, quattro fuoricampo in una partita sola, nel giugno del Trentadue, oscurando il sole di Babe Ruth. Gehrig aveva tradito il football, la divisa in pigiama meglio si addiceva al suo carattere mite. Erano i favolosi anni dopo la depressione, l’America tornava a respirare e Lou Gehrig regalava felicità scivolando a casa base. Fu colpito da questo male che nessuno conosceva nemmeno tra i grattacieli e la coca cola, quando nel Quarantuno il suo corpo di ferro, ridotto a un filo di stagno, dovette infine arrendersi, l’America si fermò e Eleanor Gehrig capì che suo marito era davvero amato da molti, da tutti, arrivarono i fiori da Franklin Delano Roosevelt e fu silenzio.
Deve averlo capito anche Chantal che da due anni, da sempre sta accanto a Stefano, lo accarezza, gli offre parole, lo fa vivere. «Era arrivato il momento perché lui ne parlasse». Il momento. Un istante per spiegare a chi urla, a chi devasta, a chi bluffa che la vita è una cosa tremendamente seria, che il calcio poi è pieno di trappole, non sono i rigori non fischiati, non sono gli arbitri venduti, quelli fanno parte del repertorio storico. È la malattia, è questa malattia che forse nasce dal prato verde e dai suoi concimi, che vola nell’aria, che si infila nello spogliatoio che non profuma più di olio canforato ma sputa vapori chimici. Sta nella boccetta colma di bibita fresca e colorata, chiamasi integratore, sta nella fleboclisi non sempre di zucchero, sta nella pentola di uno stregone chiamato medico o di un massaggiatore. Si calcolano le percentuali, si presume, si deduce, si avviano indagini, Raffaele Guariniello torna in campo, a centrocampo, il popolo del football sente la pelle sudata, prova un brivido lungo la schiena, pensa, ricorda, prova a sfogliare il diario personale, si interroga, stavolta senza alzare la voce, senza processi televisivi e accuse, perché il demonio si aggira, è un fantasma bastardo, potrebbe svelarsi da un momento all’altro, uno strano battito di palpebre, la voce che si incrina, la parola che sfugge, il respiro irregolare.
L’atleta, potente e prepotente, si risveglia come una figurina di carta bagnata, l’uomo non può reagire perché non sa a chi deve reagire. Stefano Borgonovo ha raccontato la sua partita maledetta, l’avversario si nasconde ma fa male, così come si era nascosto con gli altri. Le statistiche incominciano ad allarmare, né il ciclismo, avvilito e oscurato da altri mali, né la pallacanestro hanno registrato casi analoghi, anche il rugby sembra non offrire gli stessi dati agghiaccianti.

Il gioco del calcio, carico di denari e abbagliato dai riflettori, si riscopre improvvisamente nudo, debole, fragile, impaurito dalle immagini di un uomo di quarantaquattro anni che osserva un monitor sul quale scorrono parole, la traduzione dei pensieri. Gli occhi sono spalancati. Forse sono emozionati, finalmente guardano, dopo anni di silenzio, il mondo che sta fuori. O forse hanno paura che la luce si spenga.

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