«Drive», il noir al neon che corre in taxi sulle strade del crimine

«Il miglior film dark che abbia mai visto». Parola di Bob De Niro che, presidente della giuria all’ultimo Festival di Cannes, lo ha premiato con la Palma d’oro per la miglior regia. Qui in Italia i critici si sono già divisi (sopravvalutato per Paolo Mereghetti, un filmone per Marco Giusti) ma, con un promo così, Drive di Nicolas Winding Refn ha molte probabilità di superare la dimensione di culto e diventare un piccolo caso. Scarno, con un linguaggio originale e dialoghi stringati, è un film che consacra una galleria di talenti. A cominciare dal quarantunenne regista danese, già autore della trilogia di Pusher, in grado di metabolizzare nel racconto il meglio del noir americano senza farlo pesare. Per proseguire con Ryan Gosling, l’attore cool del momento, appena visto in Crazy Stupid Love e che tornerà protagonista di Le idi di marzo di Clooney. Proprio a Gosling, peraltro, si deve l’ingaggio di Refn per la trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di James Sallis (pubblicato in Italia da Giano editore). Infine, l’inglese Carey Mulligan, già vista in An Education, in Nemico Pubblico di Michael Mann e che vedremo al fianco di un erotomane disperato (Michael Fassbender) in Shame di Steve McQueen.
Insomma, tutta gente giusta che fa film giusti. E che qui si integra alla perfezione nelle atmosfere rarefatte rese dalla musica che accompagna la Los Angeles dispersiva di giorno, deserta e illuminata di notte. Non a caso l’autore definisce il suo film «un noir al neon». Anche la vita di Driver (Ryan Gosling) si divide in due tempi: stuntman per il cinema alla luce del sole e autista per rapine col buio. «Io guido e basta», dice a quelli che lo noleggiano. «Non porto armi. Ti do cinque minuti per fare il colpo. Non m’interessa che cosa ti succede un minuto prima né un minuto dopo. Da questo momento non sono più rintracciabile a questo telefono». A rompere l’equilibrio spunta dal nulla Irene (Carey Mulligan) che vive sola con il figlioletto. È qui, nel prologo vagamente sentimentale, che Drive infila qualche ingenuità. Il pilota e la misteriosa vicina di casa si ritrovano nello store della zona e lui ha la fortuna di accompagnarla a casa con il pargolo allorché la macchina si guasta. Poi, previa deviazione bucolica, l’accompagnerà una seconda volta quando lei si presenterà nell’autorimessa per la riparazione. Il marito (Oscar Isaac, altro attore richiestissimo a Hollywood, lo rivedremo in W.E. di Madonna) è in galera e la prospettiva si fa allettante. Fino a quando, troppo presto, ne esce, purtroppo gravato di troppi conti pregressi. Così salta un altro equilibrio e la storia vira nel noir violento, fra Tarantino, Dario Argento e Taxi Driver (ecco forse spiegata la predilezione di De Niro). Ora gli attrezzi da officina si trasformano in armi letali nella resa dei conti del giustiziere romantico, cavaliere efferato, ma ligio a una sua moralità metropolitana. Ed è qui che il pubblico più sofisticato storcerà probabilmente il naso.
«Il mio personaggio è molto riservato e laconico», ha spiegato Gosling. «C’è una sorta di economia dei movimenti nel suo portamento, un’economia di parole nel suo modo di esprimersi. Una sorta di autocontrollo meccanico che raggiunge quando guida. Nicolas continuava a dirmi: “Driver è mezzo uomo e mezzo macchina”. Dall’altro lato è un individuo letteralmente psicotico. Come Travis Bickle di Taxi Driver, sotto la sua calma apparente nasconde una potente riserva di energia e una violenza nervosa». Parlando dei suoi personaggi Refn ha confidato: «Mi interessa il lato oscuro dell’eroismo, il modo in cui quell’inarrestabile pulsione e adesione a un codice specifico possa sfociare in qualcosa che è quasi psicotico». Ma oltre il profilo esistenziale di questi lupi solitari e malati, ciò che distingue Drive da tanti noir è la metropoli narrata con una freddezza scandinava nella quale le immagini dominano sulle parole. «Sono dislessico, da ragazzino non ero in grado di leggere, avevo difficoltà a interpretare immagini», ha detto di sé il regista, figlio di genitori ultrapacifisti. «A otto anni sono andato in America. Non capivo una parola d’inglese, le immagini sono diventate la mia prima forma d’intrattenimento. Mi sono innamorato del cinema.

Ma il mio immaginario è stato segnato più dall’Empire State Building che dai porti danesi. Da qui il motivo di disagio nel comunicare con i miei connazionali, notoriamente repressi, di un’aggressività passiva. E dunque più che mai pericolosa quando esplode».

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