Dubai, il maxi-debito è senza paracadute Le Borse ancora giù

Il dossier Dubai non può ancora essere archiviato dalle Borse. Quel debito da 59 miliardi di dollari, portato alla luce giovedì scorso dal colosso Dubai World, non gode del paracadute governativo. E in serata la società ha precisato che sono 26 i miliardi di dollari di debito soggetti alla ristrutturazione, di cui 6 miliardi legati a Nakhell Sukuk. Dubai World «ha ricevuto finanziamenti in base al programma dei progetti, ma non garanzie dal governo», ha spiegato il direttore del ministro delle Finanze, Abdulrahaman Al Saleh. Chi ha concesso crediti deve quindi «assumersi la responsabilità delle loro decisioni».
L’emirato se ne lava dunque le mani, confidando che tutto si risolva con uno spavento collettivo e grazie agli aiuti promessi da Abu Dhabi. Una mano tesa, quella dei vicini più benestanti (benché privi dell’aria da nouveaux riches di Dubai), che avrà un prezzo da pagare sotto forma di uno spostamento di capitali da un emirato all’altro. Sarà la politica mischiata con gli affari a occuparsene. A un livello più basso si muovono invece le Borse. Umorali e irrazionali fin che si vuole («hanno iper-reagito», ha sentenziato mister Al Saleh), ma rese dalla crisi sufficientemente diffidenti nei confronti delle banche, una delle aree di maggiore opacità ai tempi del colera dei subprime e dei suoi derivati, responsabili di una crisi finanziaria costata solo agli Usa (calcoli di Goldman Sachs) tra i 2.100 e i 2.600 miliardi di dollari.
Poco importa se il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, ha definito «gestibile» il debito di Dubai o se Morgan Stanley suggerisce l’idea di un impatto modesto sugli istituti europei in seguito alle difficoltà del Dubai, pur stimando un’esposizione attorno ai 50 miliardi per quelle inglesi. I mercati vendono, si liberano dei titoli bancari. A Londra, in calo dell’1%, Lloyd’s è crollata del 5,89%, Rbs del 4,45%, Standard Chartered del 2,37% e Barclays dell’1,85%. Ma gli ordini di vendita sono piovuti anche sulle banche non infettate dal virus islamico. L’esposizione del sistema italiano è marginale, se non addirittura irrilevante, come garantito venerdì scorso da Bankitalia e Abi, ma Ubi Banca ha preso un ceffone da -4,14%; rosso pesante anche per Unicredit (-2,15%) e Banco Popolare (-2,41%); male anche Bmps (-1,46%) e Bpm (-1,15%). Così, gli indici a Piazza Affari sono scesi di oltre l’1% (-1,21% l’Ftse All Share, - 1,25% l’Ftse Mib), come a Francoforte e a Parigi.
Solo Wall Street continua a mostrare una certa resistenza alle vicissitudini dell’emirato (a un’ora dalla chiusura il Dow Jones cedeva lo 0,15% e il Nasdaq lo 0,3%), come se il ritorno alla piena operatività dopo la festa del Thanksgiving venisse ancora posticipato. La Borsa Usa, peraltro, guarda con maggiore preoccupazione all’evolversi lento di una ripresa incapace di far ripartire occupazione e consumi, i due corni dello stesso dilemma.

L’America dell’industria ha ripreso ritmo (bene l’indice Pmi di Chicago e quello Ism di New York), ma il Black Friday, la giornata di avvio della stagione degli acquisti natalizi, si è rivelato deludente: le spese totali hanno infatti accusato un calo rispetto all’anno scorso. Se i consumatori sono ancora restii ad aprire il portafoglio, non c’è l’ombra di un acquirente per le 124 banche Usa fallite nel 2009 e proposte a prezzi stracciati.

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