Ducati, ecco l’officina che sfida il Giappone

Il segreto è nella tradizione: «Continuiamo a fare una moto con un motore pensato 50 anni fa» Ma pure nelle collaudatrici donne

nostro inviato a Bologna

Manca Lea. Bella, mora, i capelli lunghi sotto il casco, e mancano la sua moto e quel tatuaggio da mostrare con sapienza. In spiaggia, tutte le volte la stessa cosa: il logo Ducati a dorarle la pelle, sexy e strano al tempo stesso. Lea aveva due figli e una passione: le moto rosse dal rombo inconfondibile. Faceva la collaudatrice, Lea. Perché a Borgo Panigale, quartierone alle porte di Bologna diventato regno della rossa a due ruote, le donne non passano la vita solo ai fornelli o sedute in azienda davanti a un computer; qui le donne saltano in sella a un mostro da 150 cavalli, guardano dritto negli occhi i capi reparto e dicono che «sì, la moto è a posto, si può vendere». Lea manca perché adesso si festeggia e si parla solo della Ducati in vetta al mondiale che le suona ai giapponesi e pure a Valentino Rossi; ma Lea non c’è, portata via da un fottutissimo incidente stradale mentre tornava da un raduno dei discepoli del credo desmodromico.
«Solo noi possiamo avere la pazza idea di sfidare i giganti del motociclismo e vincere con una moto fedele nei decenni a una filosofia tecnologica ormai datata: il motore desmodromico appunto (che regala il tipico rombo Ducati) pensato nel 1956; il telaio tubolare introdotto nel 1979; il propulsore posizionato a elle dal 1971. Sono tutti concettualmente passati, ma per noi, rinunciarci, sarebbe come fare il Natale senza albero». Silvio parla chiaro; ha 40 anni, «metà dei quali trascorsi in azienda»: è un figlio Ducati, figlio di questa madre motoristica con tanti amanti. «Qui mio padre faceva il medico - dice con orgoglio -, sono il 20% i figli di ex dipendenti». Quasi si commuove: «La Ducati è come un pugile con le cicatrici sul viso: è sopravvissuta all’occupazione tedesca nel ’43, a un bombardamento nel ’44, a un fallimento nel ’48, a un quasi fallimento nel ’90, a un incendio nel ’94... Eppure siamo sempre qui. E le cicatrici rendono il pugile più forte».
Fuori, uno stradone s’incunea nella tangenzialina che porta all’autostrada. Nel parcheggio, di scooteroni o altre motociclette neppure l’ombra. Non si tratta di circolari o divieti interni: qui si entra solo in sella a una Ducati. Trattasi dello spontaneo codice di autoregolamentazione desmodromica. Sui duecento metri della parete che dà sulla tangenzialina campeggia il marchio Ducati e la gigantografia, grande come un palazzo, di Loris Capirossi in piega a 200 all’ora. È vero, adesso vince quel fumetto coraggioso di Casey Stoner, «però non dimentichiamoci mai che se la moto va così forte è anche merito di tutto il lavoro fatto da Loris», scolpisce con le parole Filippo Preziosi, 39 anni, da oltre dieci padre progettista delle rosse e ora direttore generale di Ducati corse.
Per profanare la palazzina dove tutto si gestisce, si percorre un corridoio; avanti ancora qualche metro ed ecco quella porta rubata a un film di Kubrick: si entra solo con tessera magnetica. È il reparto corse, il regno abitato da un centinaio di persone, fra tecnici, impiegati, dirigenti. In fondo al corridoio un uomo viene avanti spingendone un altro su una sedia a rotelle. Due ombre e dietro la luce, se non fosse che Kubrick è morto la regia sarebbe tutta sua. Chi spinge è Claudio Domenicali, amministratore delegato di Ducati corse, l’uomo seduto è Preziosi, il papà delle rosse. È inchiodato alla carrozzella dal 2000, colpa di una caduta, colpa del destino; però la sua creatività, la sua forza non sono mai state inchiodate. «Più che altro sono il coordinatore di un gruppo di persone, da solo non potrei fare niente, il mio orgoglio, più che la Gp7 (la moto in testa al mondiale, ndr) sono loro», dice.
Decine di persone si radunano. È l’una e trenta in punto di lunedì, sul piano mobile dove solitamente stanno i mostri da gran premio ci sono bottiglie di moscato e bicchieri. Preziosi racconta dei complimenti ricevuti, «quelli delle due massime autorità del mondiale, la Honda e Rossi». Quindi chiama a turno gli ingegneri che a Shanghai hanno fatto l’impresa: Christian, Gabriele detto Bistecca, Fabiano. Hanno le occhiaie di chi è appena sbarcato dalla Cina, ma il rito del popolo desmodromico vuole che la vittoria vada subito condivisa con la truppa. E sono battute, sfottò, cose «off the record». «Attenti a quel che dite perché c’è un intruso», mette sul chi va là Domenicali; non basta. Allora un patto: «Lei è qui, nostro ospite - sorride - ed è la prima volta che facciamo entrare qualcuno durante la festa, per cui...». Per cui l’inviolabile giuramento desmodromico.
Si torna al lavoro. Dopo la passione c’è la puntualità ad animare i cuori di questi mille e quarantatré italianissimi ducatisti. «Non è vero che nel nostro Paese manca la scintilla, le università italiane sfornano fior di tecnici e quando a questo potenziale si affianca un’organizzazione valida ecco i risultati... Noi siamo italiani al 100 per cento e fieri di esserlo», spiega Domenicali. Già, l’organizzazione. Anni fa, Valentino Rossi motivò il suo no alla Ducati perché su tutto, qui, regnava il sistema di lavoro, non il pilota. «È un grande dispiacere che ci portiamo dietro - confessano Domenicali e Preziosi -. Fu un’incomprensione: il metodo di cui parliamo è studiato per mettere a disposizione del pilota proprio quel che vuole... Il massimo». Ma ci sarebbe ancora posto per Rossi in Ducati? «Non aprire le porte a un pilota come lui sarebbe contro la nostra natura...».
Giù in fabbrica, su Valentino, la pensano diversamente. Mirco, responsabile della prima parte della catena di produzione: «Non ci manca, anzi, dà più libidine vincere senza di lui»; e Daniele: «Venga pure, ma prima dobbiamo conquistare il titolo, altrimenti direbbero che vinciamo perché c’è lui». Enza ha appena terminato di collaudare una moto: «Prima montavo il motore, il nostro cuore che pulsa. Ieri ho fatto una levataccia per vedere il motomondiale.

I sospetti su di noi, sulla moto? Si vede che adesso diamo fastidio ai colossi del campionato... Valentino è un grandissimo, ma non sa accettare la sconfitta. Lui in Ducati? Prima vinciamo con Stoner». La testa ducatista pensa ancora al Dottore, la pancia no.

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