«Non tornare a casa tardi!»; «Sarebbe meglio che questa sera tu non vada in discoteca»; «Se proprio devi uscire non metterti nei guai»... e tante altre raccomandazioni di questo tipo sono una consuetudine tra i genitori che hanno a cuore le sorti dei propri figli. Da qualche mese, però, padri e madri si trovano a dover fronteggiare una preoccupazione in più: le manifestazioni di piazza.
È chiaro che per dissuadere i propri figli o per renderli prudenti, i genitori non possono usare gli stessi argomenti di cui generalmente si servono nel fine settimana. Se da un lato cè la festa con i suoi sballi, dallaltro cè la politica con i suoi problemi di schieramento e di consapevolezza civile. Il problema neppure si porrebbe, se le devastazioni che hanno accompagnato le recenti proteste studentesche (...) (...) non avessero avuto gli esiti drammatici che conosciamo.
Io, genitore, chiederei senza esitazione a mio figlio di restare a casa domani: è troppo pericoloso, è facile che la manifestazione degeneri in una guerriglia urbana. Mio figlio si opporrebbe con buoni argomenti: mi dice che lui rifiuta la violenza, che marcerà per strada con un gruppo pacifico; che se non si farà vedere, verrà considerato un crumiro, un fifone, uno che rimane indifferente di fronte ai problemi che riguardano anche il suo futuro.
Può un ragazzo che vive sei giorni alla settimana a scuola, che sta con i suoi compagni mediamente cinque ore al giorno accettare quelle critiche? Non credo proprio: diverrebbe un emarginato con possibili conseguenze anche sul piano del profitto scolastico.
Cè un «però». Se isolato, un genitore può fare poco o niente per dissuadere il proprio figlio a partecipare alla manifestazione, se invece riuscisse a mettersi insieme ad altri genitori, con il suo stesso punto di vista, che hanno i figli nella stessa classe del suo, qualcosa potrebbe ottenere. Non dovrebbe essere difficile mettere in circolazione analoghe riflessioni dissuasive in grado di coinvolgere un gruppetto di giovani, che non si sentirebbero più degli emarginati se non partecipassero alla manifestazione.
Ma veniamo ora alla questione più difficile: quali argomentazioni sostenere di fronte alla determinata volontà dei figli di andare in piazza. La cosa migliore è (come sempre) fare un quadro, il più obiettivo possibile, della situazione. Dunque, se un giovane vuole davvero essere responsabile e non indifferente, è bene capire quello che sta succedendo. Innanzitutto si dica cosa sta accadendo oggi - prima della riforma Gelmini - nelluniversità. Esiste un forte degrado morale nel reclutamento dei docenti: prevale il nepotismo, il clientelismo, troppo spesso sono messi in cattedra insegnanti non per il merito ma per le raccomandazioni di cui dispongono. In secondo luogo ci sono corsi di laurea ed insegnamenti che non hanno nessuna giustificazione culturale: sono stati istituiti per puro clientelismo politico. Tutto questo comporta spese inutili, così come spesso - documenti alla mano - la gestione degli atenei è fuori controllo. La riforma Gelmini mette un riparo a queste disfunzioni.
Quanto ai ricercatori (alcuni eccellenti, altri scadenti) è doverosa una loro selezione: qualora fossero tutti definitivamente inseriti nelluniversità, non ci sarebbe più alcuna possibilità di ingresso nelle accademie dei giovani laureati. La selezione sulla base del merito è un principio fondamentale che ispira la riforma Gelmini.
Chiarita la situazione nelle università, si deve spiegare come la complessa situazione politica favorisca le strumentalizzazioni: si può anche essere contro la riforma, ma è sotto gli occhi di tutti come legittime manifestazioni si trasformino in violenze organizzate con finalità chiaramente eversive. Dunque, rinunciare a manifestare è un segno di consapevolezza civile, non un disimpegno da bamboccioni.
Il vero problema è che i genitori sono lasciati soli a fronteggiare questi problemi con i figli: non li aiutano i mezzi di comunicazione che prevalentemente soffiano sul fuoco, non li aiuta la scuola, i cui insegnanti sono spesso complici di ipocrisie e disinformazione. È una logica culturale da cambiare: è necessario imparare a pensare che un servizio pubblico deve essere a favore degli utenti e non può essere organizzato come uno stipendificio.
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