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Le due guerre di Gerusalemme

La rabbia degli arabi contro i fondamentalisti della Striscia: «Non vogliamo uno Stato islamico» La delusione degli ex coloni di Gaza: «Combattiamo per la terra che ci hanno costretto a lasciare»

dal nostro inviato a Gerusalemme

All'El Dorado Café, sulla Salah Ed Din animata fino al convulso, il bancone è ancora pieno di babbinatali di cioccolato incartati nella stagnola a colori; di pile di dolcetti natalizi e di quegli orrendi soprammobili tra il pletorico kitsch e il ridondante pacchiano (portaconfetti come acquasantiere, vecchi con la pipa in gesso colorato, pastorelle con tritoni...) che negli anni Sessanta furoreggiavano sui comò di Messina e oggi deliziano le signore della buona borghesia araba gerosolimitana.

I mariti, come al Sud da noi, fanno cerchio in disparte e commentano i fatti del giorno. Ma è più facile che si senta la parola «fave» (nel senso delle leguminose) che, inshallah, già si vedono al mercato grazie a questo anticipo di primavera, che qualcuno di essi pronunci la parola «Gaza».

Non è disinteresse, non è cinismo. È assuefazione al disastro, alla sciagura, alla guerra. Soprattutto, non è simpatia per la causa dei capi mandamento di Khan Yunis e di Gaza City che giravano tronfi come tacchini nelle loro divise nere, col mitra ad armacollo, e pensavano di farla da padroni contando sul combinato disposto di mitra e Corano, che fino a un certo punto è andato per la maggiore.
Sì, l'ennesimo padre con la keffiah bianca e rossa intorno al collo che regge il cadaverino del figlio tra le braccia, riproposto da Al Jazeera commuove, come no. Ma dura il tempo che dura. È dai tempi di Arafat che facce di innocenti ammazzati come agnellini fanno il giro del mondo. Però «non ci si può strappare i capelli tutta la vita senza darsi una alternativa, senza credere che un'altra vita, fatta di studio, di lavoro, di week end, di ballo, di vacanze: una vita normale, come la vostra, di italiani, o di francesi, sia davvero possibile. E poi, un conto è difendere la causa, senza rinunciare alla restituzione da parte di Israele dei Territori occupati nel 1967; e un altro è progettare la costruzione di una repubblica islamica, come sognano quelli di Gaza». Non è, questa, solo l'opinione di Ahed Izhiman, 26 anni, figlio di Adli e fratello di Amr, proprietari del caffè più elegante della Gerusalemme est. È l'opinione della borghesia mercantile araba, stanca di guerra, di odio, del muro contro muro, delle intifade in cui sono cresciuti. Ne abbiamo già parlato, su queste pagine; ma è stupefacente vedere come l'opinione generale, anche ora che i morti a Gaza son diventati più di 500, non sia cambiata.

«Quelli sognano ogni notte di essere come gli Hezbollah. Vanno in giro vestiti da Rambo e pensano di essere gli unici palestinesi degni di questo nome. Ma è sempre stato così, storicamente. Quelli di Gaza hanno sempre guardato alla gente della Cisgiordania come a palestinesi di serie B», commenta l'avvocato Al Antaui.
«Io ho votato Hamas - dice il proprietario di un vicino negozio di elettrodomestici - perché ho creduto che rappresentassero il cambiamento. Protestavo contro la banda di Al Fatah, corrotti e corruttori. Ma tre anni fa, quando si votò, non avrei immaginato che il mio voto andasse ad armare il braccio di questi dementi che ora piangono, dopo aver tirato centinaia di inutili razzi e aver fatto imbestialire il nemico comune. Il nemico è più forte. Sul piano militare vince sempre lui, che gusto c'è? Che intelligenza politica hanno, questi imbecilli?».

In queste giornate cupe, scandite dalla pioggia di fuoco bianco che si rovescia su Gaza, e visto in tv sembra pensato da specialisti di fuochi artificiali napoletani, si assiste al ritorno di vecchi fantasmi che la cronaca aveva gettato di lato da un pezzo. Sono i coloni degli insediamenti di Gaza fatti sloggiare con la forza da Ariel Sharon tre anni fa. Allora furono i soldati a farli uscire dalle loro case tenendoli per le orecchie. Ora ci sono tornati. E a vestire l'uniforme son loro.
Come Aharon Cruz, ufficiale dei paracadutisti, spedito nell'ex colonia di Netzarim, nel centro della Striscia, dove è stato ragazzo. «Da giorni - dice suo padre, rabbi Zeev Cruz - mi pongo la stessa domanda: a che è servita quella umiliazione che ci venne inflitta?». «Quel che dicevamo allora si è verificato puntualmente - ammonisce Ami Shaked, capo della sicurezza nella colonia di Gush Katif, anch'egli padre di un parà -. Ma forse è colpa nostra. Non ci saremmo dovuti arrendere così facilmente».

Yossi Neuman, ufficiale di riserva che un tempo viveva a Neveh Dekalim, ha visto partire per la guerra suo figlio Itai, comandante di un carro armato. «Che amarezza - dice -. Oggi stiamo combattendo per riottenere quel che avevamo già. Abbiamo detto fino alla nausea che i razzi di Hamas avrebbero raggiunto Ashkelon, ma ci rispondevano che eravamo fissati, che eravamo paranoici».
Molti, tra i vecchi settlers di Gaza, sognano di tornarvi. E non vogliono sentirsi dire che è un sogno a occhi aperti. Itzik Vazana è uno di questi. «È come se si stesse chiudendo un grande cerchio - sorride mesto il vecchio Itzik -. Ma alla fine torneremo a Netzarim. Noi coloni siamo stati il giubbotto antiproiettile di Israele. Torneremo.

Non dico che accadrà domattina, ma è un processo che maturerà lentamente, vedrà».

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