Roma - Un’esca per gli Oscar: due icone americane e un pugno di star fanno corona intorno a una saga Usa di grande momento. Si tratta di J.Edgar (dal 4 gennaio), l’atteso film di Clint Eastwood, che a novembre ha diviso la critica a stelle e strisce, sempre attenta ai classici di «Dirty Harry», in miglioria costante mentre avanza il tempo. A 81 anni, Clint resta sul podio dei più vitali registi del mondo, confermandosi brillante bastian contrario degli studi hollywoodiani, ormai sclerotizzati sui remake, intanto che lui, dopo aver fatto soprattutto l’attore nel ventesimo secolo, entra nel ventunesimo da autore coi fiocchi.
Un autore-cantore della storia americana, di fatto, pronto a spiegare la guerra di Corea e il razzismo con il suo Walt Kowalski dell’eccellente Gran Torino, o il lascito di Nelson Mandela in Invictus e la Seconda Guerra mondiale in Lettere da Ivo Jima e in Flags of our Fathers. Né manca, alla vecchia volpe del grande schermo targata Warner Bros. - 48 gli anni di servizio con la major -, il registro melodrammatico delle figure umane sfaccettate, anche portatrici di Oscar (Mystic River e Million Dollar Baby). Stavolta, però, non offende, né difende il suo mélo sul poliziottone omofobo, sebbene gay, superbamente interpretato da Leonardo DiCaprio, cui calza a pennello la figura di J. Edgar Hoover, fondatore dell’FBI, che dal 1924 al 1972 fece il bello e il cattivo tempo sulla politica di otto presidenti Usa. Oppresso da chili di cerone, DiCaprio sfodera un’interpretazione ficcante di colui che è passato alla storia dando filo da torcere ai gangster anni Venti - da Al Capone a Dillinger, «pericolo pubblico n.1» - e ai comunisti dei Trenta (anche se, stranamente, Clint sorvola su McCarthy, o sul razzismo di Hoover!). Non era facile condensare quattro decadi di vita e avventure in due ore e mezza di film, però l’impressione è che Eastwood si concentri troppo sull’intima relazione tra Hoover e il suo luogotente Clyde Tolson (Armie Hammer, visto nel film su Facebook) e troppo poco su precise connessioni storiche (perché manca la mafia?).
Eastwood, del resto, era stanco di sentirsi rimproverare estraneità, rispetto alla questione sessuale, così è arrivato lo sceneggiatore di Milk, Dustin Lance Black, a immettere in J.Edgar una dose di tenerezza tra maschi: il bacio accennato tra il boss del Federal Bureau of Investigation e il suo vice fa pensare a Brokeback Mountain, con l’irrisolta tensione erotica tra i due cow-gay. Meglio il pianto di Tolson sul corpo di J.Edgar, morto nel 1977, perché rompe con la nozione di virilità convenzionale, restìa alle lacrime e offre una diversa sensibilità, che però non entusiasma la comunità gay, per la quale Clint è troppo tiepido. Notevole, invece, la struttura a flashback: il biopic oscilla tra il racconto di uno Hoover maturo, ossessionato dalla caccia ai «rossi» e dalla raccolta maniacale di dati personali sui presidenti di turno e gli squarci sul tempo passato, con l’invadente mamma Hoover (Judi Dench, brava) a segnare l’orientamento sessuale di J.Edgar diciannovenne, represso e repressore, bugiardo e paranoico, fascista e ipocrita.
Se la prima ora del film stenta a decollare, tra uffici post-vittoriani e atmosfere alla History Channel, con personaggi storici in scena senza un perché - dal trasvolatore Charles Lindbergh (Josh Lucas) a Richard Nixon (Christopher Shyer) -, la seconda ora fa focus sul piccolo Stalin disturbato e i suoi problemi identitari. E sappiamo che, in privato, Hoover si travestiva da donna, ma in pubblico picchiava duro sugli omosessuali, così lanciando la sua carriera di guardiano della rettitudine americana.
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