"Dylan? All’impegno civile preferì pop e belle ragazze"

Il produttore Joe Boyd ha scoperto e prodotto Pink Floyd, Drake, Rem e altre decine di star. L’eminenza grigia del rock si racconta. E non fa sconti

"Dylan? All’impegno civile preferì pop e belle ragazze"

Nell’annus mirabilis 1967 a Londra inventa l’UFO Club, simbolo della psichedelia londinese. Scopre una strana band, la lancia nel locale e produce il suo primo singolo, Arnold Layne: il nome del gruppo è Pink Floyd e qualcuno lo avrà sentito nominare. Dove succede(va) qualcosa di rivoluzionario nel mondo rock, lì c’era Joe Boyd. Ha prodotto Nick Drake e i Rem, ha portato in Inghilterra il mitico blues di Muddy Waters, quando Dylan stravolge il folk a Newport passando alla chitarra elettrica è Boyd che la collega alla presa. È l’eminenza grigia del rock, e ne racconta l’epos e le tendenze nel libro Le biciclette bianche (Odoya), un racconto che non fa sconti a nessuno.

Perché Le biciclette bianche?
«Perché ad Amsterdam, quando le biciclette bianche dei provos furono rubate e ridipinte, nel mondo finì lo spirito degli anni Sessanta. E poi perché un momento dimenticato ma fondamentale del rock fu la notte in cui lanciai i Tomorrow con il brano My White Bycicle».

Come si scoprono i Pink Floyd? Fiuto, fortuna...
«Più che il talento ho sempre cercato l’originalità e loro erano decisamente originali, soprattutto Syd Barrett. Con quelle luci viola e turchesi che gli roteavano intorno furono la vera colonna sonora dell’underground. Peccato che Barrett sia il meno conosciuto tra i milioni di persone che hanno comprato i dischi dei Pink Floyd».

Lei coi Pink Floyd avrebbe potuto fare milioni.
«Ma io ho preferito cercare nuovi fenomeni, come i Soft Machine e tanti altri. A me piace scoprire cose originali, non campare di rendita».

Quelli erano i tempi d’oro della nuova cultura giovanile.
«L’UFO rappresentò uno dei momenti più creativi di quella cultura; un movimento spontaneo e sperimentale che mescolava musica, arte, moda e piacere con poca filosofia».

E poi cosa accadde?
«Come tutte le rivoluzioni anche la nostra è nata per incuriosire il pubblico. The Beggar’s opera, il primo successo commerciale inglese, del 1721, si basa sulle confessioni di ladri e banditi davanti al patibolo e sui giornali che hanno parlato di loro. Così quando per noi è arrivato il successo, quando gli artisti hanno smesso di sperimentare per fare carriera, quando le droghe pesanti hanno invaso le strade, tutto è cambiato».

Quindi quali sono le cose che hanno rovinato il r’n’r?
«Tutte le trasformazioni rovinano il modello originale, la cocaina ha fatto i danni più gravi, poi la registrazione digitale dei dischi e le montagne di soldi facili».

E gli uomini che hanno cambiato il rock?
«Prima di tutto Elvis, Jerry Lee Lewis, Bill Haley cioè i bianchi che hanno trasformato il rhythm’n’blues in rock’n’roll. poi il passaggio dal r’n’r al rock grazie soprattutto a Dylan e poi ai Beatles e ai Rolling Stones. Ma prima non dimentichiamo il blues».

Lei è andato a riscoprire antichi bluesmen come Lonnie Johnson e Son House.
«È stato eccitante cercare voci astratte ascoltate su disco e portarle sul palco in carne e ossa. Erano dei giganti, come Johnson e Skip James, ma trapiantati davanti a un pubblico di studenti borghesi cercarono di modernizzarsi, così il loro blues perse lo stile rurale delle origini. Rimangono comunque i padri del rock, anche se alcuni sono sopravvalutati, come John Lee Hooker, a scapito di Louis Jordan».

Ci parli di Bob Dylan.
«All’inizio non mi convinceva. Ho trovato debole il suo primo album. Poi brani come A Hard Rain’s a Gonna Fall mi ha rivelato il suo genio. Ha fatto crescere la canzone politica, è stato il nuovo Woody Guthrie finché ha deciso di portare il suo attacco frontale alla folk music».

Sono nate tante leggende su quella notte, al Newport Folk Festival del 1965, in cui Dylan salì sul palco con la chitarra elettrica. Si dice che quella notte morì il folk, che i puristi piangevano, che il pubblico fischiava. La verità?
«Fu uno scontro tra puristi come l’etnomusicologo Alan Lomax e innovatori come me e il manager di Dylan, Grossman. Quando Bob salì sul palco io attaccai la spina, e lui partì con Maggie’s Farm. È vero che molti cominciarono a fischiare e ad inveire, ma altri gridavano “ancora”. La maggior parte del pubblico, della vecchia sinistra, odiava la chitarra elettrica e la marjiuana, e quindi fu un oltraggio quell’esibizione. Ma non è vero che Dylan fu cacciato: da programma doveva cantare solo tre canzoni e così fece. E nessuno tentò di tagliare il cavo della chitarra. Qualcuno si confonde con l’esibizione di un meraviglioso gruppo di veri carcerati texani, che accompagnavano i canti di lavoro tagliando tronchi d’albero con l’accetta».

Oggi come considera Dylan?
«Uno che per un certo periodo ha tentato di cambiare il mondo facendo politica in musica poi e poi, crescendo, ha capito che era più semplice conquistare il mondo del pop, e quella conquista sarebbe stata ancora più divertente se circondato da belle ragazze».

La musica di oggi?
«Il rock di oggi mi annoia, poche sorprese ma tutto va avanti. Michael Jackson ha venduto più dischi di tutti, aveva grande talento, anche se non mi piacciono i suoi album high-tech»:

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