E adesso Serena Grandi vuole solo ruoli drammatici

Dopo le disavventure è rispuntata al cinema con Avati e in tv con la miniserie «Una madre»

da Roma

La vita cambia le persone. Figuriamoci gli attori. Gli attori provati dalla vita, poi, diventano dei veri interpreti. Chi riconoscerebbe oggi, nella defilata e matronale attrice dei film di Pupi Avati o Massimo Spano, la chiassosa e giunonica protagonista dell’erotismo anni ’80 di Tinto Brass? Serena Grandi ha saputo costruirsi una nuova vita, «e oggi - dice lei - sto vivendo una seconda, inattesa carriera». I telespettatori la ritroveranno in Una madre, miniserie diretta da Spano, stasera e domani su Raiuno, in cui - nella storia d’una prostituta (Violante Placido) che per uscire dal giro, è costretta a mettersi contro la malavita e contro la legge - interpreta Salvatrice, ex donna di vita oggi proprietaria d’un ristorante.
«Nove anni fa, subito dopo aver girato Radiofreccia di Ligabue, avevo deciso di lasciare definitivamente il cinema per dedicarmi dedicarmi solo a mio figlio. Fino ad allora ero riuscita a portarmelo dietro sui set; ma non poteva continuare così. Oggi però lui sta preparando la maturità. E io mi sono sentita pronta a tornare al mio primo amore».
E cos’è successo?
«Pupi Avati ha deciso di scegliermi per fare uno scoop. “Pensa come ci rimarranno i tuoi ammiratori d'un tempo - ha detto - se dovessero ritrovarti su una sedia a rotelle”. Aveva bisogno di un’attrice che in Il papà di Giovanna interpretasse il personaggio ispirato a una sua zia: un’infermiera dell’ospedale di Bologna che l’artrite aveva praticamente paralizzato, e che nel film è diventata la moglie di Ezio Greggio. Una donna dolce, materna, talmente innamorata di lui da perdonargli i numerosi tradimenti. È così che sono tornata al cinema».
Ma oggi che la scelgono per il senso di maternità che ispira, come guarda agli anni in cui ispirava ben altro?
«La mia carriera andava benissimo: il mio nome faceva sempre botteghino. Ma era dentro, che mi sentivo male. Ero come un motore che non gira più; come una Ferrari che affonda nelle sabbie mobili. Il fatto è che quand’ero giovane e bella cominciarono a invecchiarmi e a ingrassarmi per farmi fare la parte della madre. A 20 anni già ero la mamma di Lorella Cuccarini; a 32 quella di Carol Alt. Senza propormi mai altro: mi sfruttavano e basta, perché al noleggio significavo ancora bei soldoni. Ma io ero stufa, ero arrivata a saturazione. Più ne parlo e più mi sembra d’aver fatto un brutto sogno».
Poi ha avuto anche dei guai giudiziari...
«Era il 2004, avevo messo su un bel negozio d’antiquariato in piazza Navona, quando una giustizia irresponsabile mi coinvolse in fatti che non avevo commesso. Si è trattato del classico errore giudiziario, poi completamente annullato in Cassazione. Ma non ne parlo volentieri: da allora ho voltato pagina».
E oggi?
«Per fare la madre ho raggiunto l’età giusta. Alle spalle ho 50 film, ma soprattutto una vita non facile che mi ha fatto crescere. La mia vita è stata la mia vera palestra. Anche professionale».
Pensa di essere più brava oggi di ieri?
«L’anima dei miei personaggi è rimasta la stessa. Ho sempre interpretato ruoli positivi, rassicuranti. È la tecnica che è cambiata e, credo, migliorata».
Qualche sogno?
«Vorrei trasformare in film il mio romanzo L’amante del federale.

Mi sono scoperta scrittrice in uno dei miei momenti difficili; e buttai giù la storia (non autobiografica) di una prostituta che parte da un piccolo paese della Romagna per la grande città, lì s’innamora d’un gerarca fascista che la tratta come un oggetto, e per averla solo sua la rinchiude in un sanatorio per malati di tubercolosi. È uno spaccato della società italiana del tempo. No: non ci sarà un ruolo per me; mi piacere fare solo la produttrice. Il regista? Pupi Avati sarebbe perfetto».

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