E il "bunker" di Pianosa è diventato un ristorante

Era nato come struttura di super sicurezza: ora otto carcerati cucinano per i turisti

E il "bunker" di Pianosa è diventato un ristorante

Chissà quale sarà il menù del giorno, oggi, a Pianosa. È vero che c'è fame. Ma è un’altra fame. Fame di spazio, di celle, di carceri. Eppure qui, sull'isola reinventata, a metà del 1800, come penitenziario a cielo aperto dall'ultimo granduca, Leopoldo II d'Austria, ci si preoccupa solo di mettere insieme il pranzo con la cena. Per i turisti.

Rigorosamente contingentati, che partono di buon mattino da Marciana Marina o da Portoferraio e se ne tornano sulla terraferma a metà pomeriggio. Dopo il pranzo, appunto. Quindi per loro, ma solo per loro, è importante sapere se nella pentola ribolle la ribollita o se la chianina è in programma. E per loro, solo per loro, i turisti-pendolari, lavorano gli otto detenuti che, in trasferta dal penitenziario di Porto Azzurro «scontano» qui la loro «pena», svolgendo le mansioni di cuoco, camerieri e manutentori. Senza palla al piede, ma con le t-shirts e il grembiulone che porta l'auto ironico slogan «cucina galeotta», coniata dalla loro cooperativa.

Tutto il resto è spreco di Stato. E vuoto pneumatico nell'isola, 10,3 chilometri quadrati di superficie, 18 chilometri di perimetro costiero, valorizzata dai romani, distrutta dai turchi, e oggi nelle mani di troppi padroni: i ministeri della Giustizia, del Tesoro, dell'Ambiente, il Vaticano, la Regione Toscana, la Provincia di Livorno, il Comune di Campo nell'Elba. Così ecco che, anno dopo anno, Pianosa deve galleggiare nel limbo della burocrazia. Che sfoglia la margherita delle indecisioni: farne un resort a sette stelle o una riserva naturale? Mai che venisse in mente a qualcuno di farne di nuovo un carcere coi fiocchi. La verità è che la Pianosa-supercarcere per brigatisti e grandi capi di mafia e n'drangheta non esiste più. E nessuno si ricorda che potrebbe servire, che potrebbe esistere ancora, in quest’emergenza di spazio e celle. Partito l'ultimo mafioso, nel luglio 1997, è stata sancita la dismissione del carcere e il ministero della Giustizia ha lasciato sull'isola solo un servizio di guardianìa affidato a tre uomini della polizia penitenziaria.

Ma lo spreco è fatto anche di cemento e mattoni: sono le due caserme, una dei carabinieri e l'altra della polizia, costruite per ospitare gli uomini che avrebbero dovuto tener a bada brigatisti e mafiosi, ma che non sono mai state utilizzate. Pensate che il collaudo di una delle due caserme è stato addirittura effettuato quando il carcere era già stato chiuso. Come un altro monumento allo spreco è il muro, di circa due chilometri, che il generale Dalla Chiesa fece costruire, facendo trasportare tonnellate di cemento dalla terraferma per separare simbolicamente l'isola-carcere dall'isola civile. Sulla quale convivevano coi detenuti coloro che, per dovere o per libera scelta, avevano scelto di abitare sull'isola.

Mentre oggi sull’isola che c’è, ma non c’è per lo Stato, sono una ventina (tra cui volontari della Croce Rossa e un paio di uomini della Forestale) i precari cui è stato concesso il diritto di continuare ad abitarci almeno fino alla fine dell'estate. Resistono in attesa di sapere non tanto che fine faranno loro, ma Pianosa.

Resistono come resisteva quando l’abbiamo incontrato ( adesso si sarà arreso, forse) l'assistente capo Sandro Cortis della polizia penitenziaria. Che dalla Sardegna si era fatto distaccare a Pianosa. Nella speranza che prima o poi qualche «cliente» arrivasse.

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