Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Irak per la terza volta alle urne in un anno e mezzo, George Bush per la quarta volta al microfono in meno di una settimana. Il primo evento argomento, come sempre, del secondo. Il presidente Usa non ha detto in realtà cose nuove, né lo avrebbe potuto; ha invece rivendicato con la consueta energia una linea politica (e militare) che non è mai stata colorata da pragmatismo bensì intinta in una fede (come dicono i suoi sostenitori) o in una ideologia (nella definizione dei suoi critici). Ogni appuntamento elettorale a Bagdad diventa, in questa visione, la tappa fondamentale di un processo di costruzione democratica che potrà essere decisivo non solo per il futuro dellIrak ma anche per quello del Medio Oriente e del mondo. Esso è, insomma, «uno storico spartiacque nella storia della libertà. Dalle elezioni di domani», ha detto il presidente ieri, «uscirà un governo democratico permanente che sarà il modello per le riforme e i riformatori in quellarea del mondo». Sarà una «terza tappa» di uno sviluppo democratico aperto dalle elezioni per lassemblea costituente e portato avanti dal recentissimo referendum che lha ratificata.
Bush si è tuttavia guardato dal cadere in un ottimismo senza limiti. «I nostri nemici non saranno fermati da una consultazione elettorale condotta con successo. Possiamo anzi prevedere che uno dei risultati sarà un ulteriore aumento della violenza e altri giorni di incertezza. Ci vorrà tempo per formare un nuovo governo in Irak, e pazienza di fronte ai problemi che ci aspettano. Ma la democrazia finirà col trionfare». Per questo è necessario che le truppe americane rimangano in Irak «fino al raggiungimento della vittoria completa, perché il mondo deve sapere che lAmerica non abbandona i suoi amici». Con questo argomento Bush ha di nuovo respinto le richieste, soprattutto ma non soltanto dellopposizione democratica, perché Washington annunci un «calendario» per il ritiro delle truppe. La polemica in proposito non è forse più ai livelli di qualche settimana fa e ciò si riflette in una prima inversione di tendenza nel giudizio che gli americani danno sulloperato delluomo della Casa Bianca. Dopo lunghe settimane di costante diminuzione di consensi, Bush appare ora in ripresa in numerosi sondaggi. Il suo indice di popolarità oscilla fra il 35 e il 42 per cento, cifre insolitamente basse per un presidente in carica durante il suo secondo quadriennio in officio ma leggermente superiori ai minimi di due mesi fa.
Questo è il risultato non solo della massiccia e abile controffensiva propagandistica in cui lAmministrazione è impegnata da un paio di settimane ma anche dallaffievolirsi e dal «rientro» di un fenomeno estraneo alla dialettica politica che ha temporaneamente danneggiato Bush in forte misura: luragano che ha semidistrutto New Orleans e che non può essere seriamente «attribuito» alla politica della presente Amministrazione, come insinuato da più parti nel calore delle polemiche. Un diagramma dei sondaggi mostra infatti che la «caduta» di Bush nei mesi scorsi, che coinvolge il giudizio sulla sua politica in Irak, è stata provocata in larga misura da una reazione emotiva che nulla aveva a che fare con le vicende di Bagdad e dintorni. Il «fattore New Orleans» è oggi rientrato e levoluzione dei consensi e dissensi ha ritrovato il suo ritmo fisiologico. Gli americani sono tornati a convincersi che leconomia va bene. Restano invece dubbiosi sui risultati della «guerra al terrore» e in particolare di quella in Irak, giudicata negativamente da sei cittadini su dieci.
Bush non intende però cambiare rotta e ha ribadito una volta di più che, anche se «molti dati che hanno portato alla guerra erano inesatti, la decisione di rimuovere dal potere Saddam Hussein è stata giusta. Egli costituiva una minaccia al popolo americano e al mondo». Le elezioni di oggi potranno fornire unulteriore, parziale conferma di questa impostazione.
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