Hanno vinto gli operai (anche i tanti che hanno votato «no»: il perché lo capiranno presto), ha vinto l’immagine di un Paese che sarebbe passato alla storia per la paradossale munificenza (l’Italia che regala ai più ricchi americani un miliardo di euro tondo d’investimenti), ha vinto Torino (il futuro sindaco ringrazia per la mega-grana evitata) insieme al sistema di piccole e medie imprese che storicamente campano grazie all’auto. Ma soprattutto, con il successo sofferto dei «sì», ha prevalso simbolicamente la volontà di cambiamento, l’esigenza di guardare avanti nei rapporti tra azienda, sindacati e dipendenti. Nuovi forti scossoni in arrivo, dunque, ma positivi e in grado di assestare il colpo decisivo a chi da sempre ha mescolato gli interessi politici con quelli dei lavoratori, cercando di trarne vantaggio. Si è imposto «il nuovo», insomma, e dal referendum di Mirafiori esce a testa alta anche il governo, con la sua strategia di rimanere sopra le parti e di lasciare alla base lavorativa e all’azienda le decisioni sul loro futuro.
Mirafiori, da ieri, è più internazionale, anzi globale. E questo fa onore a Torino. Lo stabilimento è stato designato da Sergio Marchionne a produrre i nuovi Suv (cioè i moderni fuoristrada utilizzabili anche in ambiente urbano) targati Alfa Romeo e Jeep. E per l’impianto piemontese e i suoi operai è l’occasione di far conoscere e apprezzare al mondo (e soprattutto ai colleghi-rivali polacchi, serbi e americani) la capacità produttiva e la qualità del «made in Italy». Insomma, una prova d’orgoglio che, se le vendite riprenderanno a girare, si rifletterà positivamente sui lavoratori, anche su quelli che si sono opposti alla svolta fino all’ultimo. Oltre ad aver mantenuto il posto e salvato indirettamente le famiglie di chi si è espresso per il «no», il fronte delle colombe si è garantito (e ne beneficeranno anche i falchi) una busta paga un po’ più pesante, in attesa che Marchionne equipari gradualmente il salario delle tute blu italiane a quello dei colleghi tedeschi: 2mila euro netti allo stato attuale. Ma grazie al «sì» ha vinto soprattutto il dialogo: spariscono le barriere, retaggio di Fiom e Cgil, tra azienda e lavoratori. L’interesse comune sarà far crescere il business attraverso il confronto, condividendo i successi e reagendo insieme ai momenti ciclici di difficoltà.
Chi trascorre 40 ore della settimana alle linee di montaggio ha dato una risposta chiara, anche se per tante di queste persone porre la crocetta sul «sì» ha rappresentato una scelta difficile, la risposta obbligata a una sorta di ricatto: prendere o lasciare, lavorare ancora o affrontare un futuro di incognite. Marchionne, ora, dovrà dimostrare di non possedere solo grandi capacità manageriali. Il top manager, o padrone come viene chiamato in modo dispregiativo dalla Fiom, è chiamato a tirar fuori il meglio di sé anche dal punto di vista umano. È questo che i suoi operai si attendono. Non basta il ritornello sugli elogi «alla squadra, agli uomini e alle donne della Fiat per quanto stanno facendo». Il «capo» dovrà convincere, nei fatti, che è giusto e ragionevole seguirlo. Le tute blu vogliono un segnale rapido in questa direzione. Marchionne deve capire che a vincere è stato il coraggio di queste persone, la voglia di «nuovo» che ha portato la base a ribellarsi al «vecchio». Si faccia dunque vedere più spesso nelle fabbriche italiane, e non solo in quelle di Detroit. Parli con i suoi operai e li inciti.
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