Il riformismo si è fermato a Pietro Nenni e ricomincia solo con Veltroni: autore di questa tesi da ambulanza è Paolo Mieli, che ieri ha scritto leditoriale forse più fantasmagorico dei suoi ultimi mimetici anni. Da ritagliare e conservare: il direttore del Corriere della Sera in pratica si è servito delle sue residue e predilette passioni, la storiografia e il potere, per mettere luna al servizio dellaltro e far riuscire la sua maionese. Nel suo scritto non manca ovviamente un esercizio di terzismo, pardon ambeduismo, doppiopesismo, cerchiobottismo, neutralismo, attendismo, veltronismo: allinizio delleditoriale scrive infatti che «la prova del governo Prodi ha offerto una prestazione di tutto rispetto» e in fondo lo contempera col dettaglio che «la Casa delle libertà ha non immeritate chances di vittoria». Ma sono sciocchezze, perché il vero moloch dellarticolo di Mieli è una vischiosa ricostruzione storiografica del riformismo italiano a partire dal 1861, una cosa che non si potrebbe leggere neppure su Mondoperaio e che annovera una progressione di garibaldini e mazzinini alla De Pretis e Nicotera e Crispi messi in parallelo coi francesi Millerand e Guesde e Sebat, più vari e innominati laburisti inglesi, più ancora i tedeschi Ebert e Scheidemann: tutta la città ne parla, come si dice. Mieli si sofferma sui primi socialisti italiani che andarono al governo, Bissolati e Bonomi, per poi tornare a occuparsi dei laburisti inglesi di Attlee, dei socialisti francesi di Guy Mollet e Ramadier e ancora di quelli tedeschi di Schumacher, cognome perlomeno familiare. E si ricomincia: Mieli cita i socialisti nostrani del 1946, la celebre scissione di Saragat nel 1947 e finalmente eccoci agli anni Sessanta, con Pietro Nenni: poi basta.
Basta. La trasvolata di Mieli si perde nelliperspazio per riatterrare direttamente allUlivo prodiano: progenitore, scrive, di quel Partito democratico che può finalmente «essere considerato qualcosa di simile ai confratelli socialisti europei che dallinizio del secolo scorso hanno avuto responsabilità di governo». Ergo, «per la prima volta dopo centoquarantasette anni, questo accade anche da noi». Cioè: Bettino Craxi, nellintero articolo, non è stato nominato neppure una volta. Neppure una. Craxi non era riformista, non era socialista, non era di sinistra, non è stato al governo. Mieli non può certo dire di non aver conosciuto Craxi, intimo anche di suo padre Renato: anche per questo è semplicemente annichilente la totale esclusione del leader socialista dalla storia del riformismo: come se gli anni Ottanta, quelli che hanno traghettato il Paese sino alla modernizzazione, non fossero esistiti, come se Craxi non fosse mai stato socialista o riformista solo perché autonomista dal Pci. Come se la storia della sinistra fosse appannaggio esclusivo di chi al Pci & succedanei si sia presto tardi annesso.
Certo, qualcuno potrebbe osservare che vari sondaggi hanno dimostrato come i voti socialisti craxiani, dal 1994 in poi, siano finiti in stragrande maggioranza nel centrodestra, in Forza Italia, movimento che si profilò interclassista e pluriculturale anche perché da puramente conservatore non avrebbe preso tutti quei voti. Mentre a sinistra, prettamente a sinistra, non andarono i voti socialisti, ma dei singoli socialisti: transfughi, traditori della prima ora, personaggi come Ottaviano Del Turco, Giuliano Amato, Enrico Boselli, Giorgio Benvenuto e poi anche Ugo Intini, e infine, dopo esser stato candidato da Berlusconi, un confuso Bobo Craxi. Loro, e non i voti, andarono a sinistra: in quella sinistra, cioè, dove sopravvivevano le incrostazioni ideologiche che di fatto negavano il riformismo che a sinistra ora vorrebbero continuamente rifondare: con Craxi che intanto fa capolino nei revisionismi congressuali di Fassino ma viene espulso dalla storiografia politica di Mieli.
Storicamente riformista, secondo Mieli, è stato e resta esclusivamente il popolo dell'egualitarismo pubblico, frontista e antiamericano, gli amici della scala mobile, gli orfani di Berlinguer, i forcaioli, i lanciatori di monetine, la sinistra inopinatamente conservatrice che infatti ha dovuto incassare il primo serio tentativo di riformare il mercato del lavoro: la Legge Biagi. Fu Craxi a esaltare il mercato e le piccole imprese, il referendum sulla scala mobile, gli Usa anziché i sovietici, Sigonella e i missili per difenderci. Fu Craxi, e mal gliene incolse, ad accogliere il Pci di Occhetto in quellInternazionale socialista da cui paradossalmente Occhetto poi lo cacciò.
Detto questo, il riformismo ormai è di chi se lo prende, di chi le riforme le fa. La storia recente del centrodestra dimostra che è la società a produrre unidea di sé attraverso dei partiti, non viceversa.
Filippo Facci
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