Torna dopo più di sei anni l'affascinante e discusso Macbeth di Graham Vick (alla Scala, da oggi al 24 aprile con doppio cast). Lo stesso che Muti portò in Giappone nell'agosto 2003 ottenendo, là, un successo oceanico e inciampando, qui, al ritorno, in un teatro al collasso. Vick è un regista che ha dato prove esemplari come decisamente discutibili. Pensiamo al Flauto di Salisburgo 2005, subito diversamente affidato (Pierre Audi con scene di Karel Appel). Quel cubo pensato nel '97 come scena fissa di Macbeth è, a nostro avviso, geniale. Capolavoro di sintesi, carrefour di passioni, delitti e ogni simbolo del quale Shakespeare prima e Verdi poi hanno fatto la loro ragione. Il cubo è una reggia di sangue dalla valenza eterna. Lo scettro che gronda «lacrime e sangue». La figura geometrica pare il monolito di Kubrick (2001: Odissea nello spazio) ed è l'epicentro stilizzato e incombente di mille cerchi archetipici. Ruota lento e sontuoso svelando spigoli, facciate, vani spogli. Rossi come il sangue, viola come il delitto, neri come la morte. Tagliati da una diagonale che è il limite tra crimine e pentimento. La regia (scene e costumi di Maria Björnson) si concentra sui tre poli di streghe, Macbeth e Lady. Streghe femme fatale, malefiche, inesorabili, sinistre. Macbeth uomo debole, preda di deliri e visioni. Lady sontuosa e potente, donna dalla maternità negata e anche come tale portata a spingere altrove ogni sua potenzialità.
Morti e allucinazioni sono suggeriti più che espressi. Il cubo ruota e il predestinato è già riverso al suolo. L'ombra di Banco, proiezione del senso di colpa del protagonista, si intravede appena nel momento in cui esce dolente di scena. Magnifica la processione dei re fanciulli che sciamano bianchi, la corona tra le mani, su un brusio arcano dei fiati. Bellissima la battaglia finale, con la luce (Matthew Richardson) verde a significare la foresta e le spade rosso lacca impugnate da remoti samurai. E intanto dalla buca sale una fuga che invoca la dignità morale.
Grande protagonista è il teatro shakespeariano, Verdi si rivolge al bardo tre volte: il Macbeth della giovinezza, l'Otello della tarda maturità e il Falstaff del commiato. La fonte deve essere servita dalla «parola scenica» anche a scapito della resa musicale. Perché mai come qui il canto parte dalla recitazione e ridiventa recitativo, declamato, parola. Verdi, per questa opera di frattura, non si stanca di chiedere agli interpreti di servire «meglio il poeta che il maestro». La sconvolgente drammaticità sorte spesso da un particolare. Un declamato, una nota forzata, un inciso. La partitura (Firenze nel 1847, ripresa parigina 1865, con aria della Lady nel II atto, elaborazione delle scene fantastiche del III, coro degli esuli e fuga della battaglia del IV) ha una modernità quasi espressionista che le rende la vita impossibile. Apparirà stabilmente nei cartelloni solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta, portata dalle voci di Maria Callas o Shirley Verrett. Magistrale e avvincente, Macbeth accosta pagine altissime e acerbità. Un nodo in più per il direttore che deve giocare sui dettagli. Ma quante pagine indimenticabili: il delirio di Macbeth nel I atto, l'aria del tenore, la stretta finale del duetto «fatal mia donna un murmure», la lacerazione di «La luce langue», la scena del sonnambulismo...
Dopo avervi diretto con successo la Lady Macbeth di ostakovic il giapponese Kazushi Ono ora è sul podio del Piermarini con il Macbeth verdiano. Con lui il grande Leo Nucci, capace di alternare, proprio letteralmente, personaggi come Schicchi e Macbeth. Artista importante e veterano del titolo. Non gli è da meno Violeta Urmana nel ruolo della Lady, né Ildar Abdrazakov in quello di Banco.
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