E Giulio fa dietrofront coi pm: «Spiato? Forzatura di Repubblica»

RomaTremonti «spiato, controllato, pedinato»? Macché. Solo una «forzatura giornalistica», secondo il ministro dell’Economia, che ha smentito lo scenario da 007 nel faccia a faccia con il procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara, venerdì scorso. Tremonti, convocato in procura la sera del 29 luglio, ha parlato con il capo dell’ufficio giudiziario capitolino per una mezz’oretta, sgonfiando il caso e «condannando» a una quasi certa archiviazione il fascicolo d’indagine aperto dopo l’intervista rilasciata a Repubblica il giorno prima. Il titolare dell’Economia ha definito quel virgolettato «una forzatura giornalistica» in un’intervista che «trattava solo temi economici», e ha aggiunto di aver smesso già da 7 anni di risiedere in caserma, escludendo così di aver cambiato «tetto» per mancanza di «tranquillità», come invece riportato nell’intervista firmata dal vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini.
La retromarcia di Tremonti di fronte ai magistrati romani, però, non è cosa da poco. L’intervista verteva infatti sulla vicenda della casa di via di Campo Marzio, nel centro di Roma, messa a disposizione del ministro dal suo ex braccio destro Marco Milanese, e pagata - secondo l’imprenditore Tommaso Di Lernia - da Angelo Proietti, titolare della Edil Ars che, secondo l’ipotesi dei magistrati, avrebbe ottenuto appalti milionari dalla Sogei proprio grazie all’interessamento di Milanese. Quel «movente» che il ministro avrebbe accampato - l’aver accettato l’offerta dell’appartamento per il timore di essere spiato dormendo in caserma - aveva infatti scatenato le solite ricostruzioni sulla «macchina del fango», entrata in azione per far precipitare le azioni del titolare dell’Economia e spingerlo alle dimissioni. Lo stesso articolo di Repubblica, in effetti, concludeva ricordando che «se vera», la ricostruzione data da Tremonti alla vicenda-casa, mostrava «il nocciolo duro del “metodo di governo” berlusconiano, che incrocia le P3 e le P4, la struttura Delta e la “macchina del fango”, gli apparati dello Stato e il malaffare economico».
Conclusioni che si appoggiavano anche alle dichiarazioni messe a verbale da Tremonti nel suo interrogatorio del 17 giugno con i pm napoletani Woodcock e Curcio. In quell’occasione, il ministro raccontò un duro faccia a faccia tra lui e il premier avvenuto pochi giorni prima, nel quale «manifestai - mise a verbale Tremonti - la mia refrattarietà ad essere oggetto di campagne stampa tipo quella “Boffo”». A dirla tutta, ai pm che gli chiedevano lumi sull’affermazione, il titolare dell’Economia spiegò di non alludere «all’utilizzazione di notizie di carattere giudiziarie e riservate per fini strumentali», ma solo a campagne stampa.
Ma al di là dei distinguo, l’evocazione del «metodo Boffo» da parte Tremonti aveva subito goduto di buona fortuna mediatica. E ad alimentare gli scenari era arrivata, la settimana scorsa, quella dichiarazione nell’intervista: «La verità è che, da un certo momento in poi, in albergo o in caserma non ero più tranquillo. Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso persino pedinato». La procura di Roma, a quel punto, decide di far luce sulla questione.

Ma il giorno dopo, come detto, è lo stesso Tremonti a ridimensionare i timori, accreditando la frase a una «forzatura» del quotidiano.
Morale, l’inchiesta appena aperta sembra destinata all’archiviazione, e i magistrati romani non si prenderanno nemmeno il disturbo di convocare l’autore dell’intervista. Basta la parola di Giulio. Spiato, anzi no.

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