Politica

E l’intellettuale cantò la sporcizia

A Napoli, il problema immondizia è antico quanto la stessa città, che pure conta duemila e cinquecento anni. Non lo risolsero i greci, non lo risolsero i romani (che pure erano maestri in questo genere di cose), e non lo risolsero i Borbone. Nel Settecento, secolo di massimo splendore artistico della capitale, le strade erano luride, come testimonia, tra l'altro, una lettera di Leopold Mozart (padre di Wolfgang) alla moglie: «La sporcizia, l'enorme numero dei mendicanti, il popolo ripugnante (...) tutto ciò mi permette volentieri di lasciare queste bellezze». Due secoli dopo, Benedetto Croce scriveva che «A Napoli non si è ancora cominciato a portare via le immondizie del Duecento».
Ma quello che si vede in questi giorni è di gran lunga più stupefacente, verrebbe da dire più grandioso, di ciò che si è mostrato ai napoletani di sempre. Montagne di rifiuti che salgono al cielo come torri di Babele della vergogna; roghi che illuminano a giorno la città; feroci battaglie di zoccole, gatti e perfino gabbiani che si contendono i rifiuti.
Tutti levano alta la loro protesta, tutti, tranne gli intellettuali. E tra i pochi che lo fanno, qualcuno sembra mettere la sordina, come a sperare che il proprio pensiero non sia «troppo» conosciuto. Perché mai? È facile rispondere. Perché i maîtres à penser napoletani sono in larga parte prezzolati, quasi nessuno intende mettersi contro il potere che (da tre lustri) distribuisce prebende, protegge, funge da agenzia di collocamento, mette sul trono e defenestra chi gli pare.
A Napoli il potere ha assunto i caratteri di un favoritismo spudorato, di un nepotismo clamoroso e impudente, di un clientelismo sfacciato e perfino spavaldo, caratteristico delle dittature. Il presunto Rinascimento napoletano ha avuto il suo patron artistico in Achille Bonito Oliva, di cui Ruggero Guarini ha scritto: «Egli ha gestito da anni tutta una serie di vanesie e pretenziose installazioni in piazza del Plebiscito, esposizioni di interminabili sfilze di immense croste e vasti scarabocchi lungo le gallerie del metrò e vari deliziosi progettini di decorazioni urbane affidate a creativi di regime».
Tra queste «opere d'arte» ci sono degli autentici obbrobri, come le cancellate della Villa comunale (che hanno suscitato l'ira funesta di Sgarbi), una fontana al Vomero (subito battezzata dai napoletani 'a vasca d''e capitùne) e una sfilza di scarpe vecchie in una stazione del metrò. Questi lavori sono costati al contribuente napoletano miliardi di vecchie lire. Tra i protetti dal regime, artisti come Fabro, Paladino, Kounellis, e lo scultore e pittore Damien Hirst, che ha avuto il coraggio (l'incoscienza, l'irresponsabilità) di esaltare la stessa munnezza che ci soffoca e ci opprime: «Quello che mi piace di più di Napoli è la sua sporcizia, che è lo specchio della società moderna. Napoli è un grande stimolo per gli artisti». Nelle famose «Notti bianche» (ennesimo scampolo di demagogia sociale) sono saliti sui palchi personaggi dello spettacolo come Pino Daniele, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Tullio De Piscopo, Eduardo De Crescenzo, Giorgia, Claudio Baglioni, Stefano Benni eccetera, e tutti o quasi tutti hanno elogiato il lavoro del governatore, del sindaco, del presidente della Provincia.
Stando così le cose, sarebbe ingenuo pensare che a Napoli un intellettuale additi come responsabile dell'apocalittico spettacolo che offre la monnezza non la sola camorra ma anche la classe politica locale. Il potere - ha scritto Michele Serio - è un venticello. Un venticello che porta premi, prebende, riconoscimenti, gratificazioni, ed è giusto e saggio mostrare un segno di rispetto verso chi ha il potere di dispensarli. Qual è questo segno? Lo stesso Serio lo indica: in un museo d'arte moderna, innalzare una statua a Bassolino «dalla cui figura provengono luci stroboscopiche che si riversano sulle schiene prone degli intellettuali di sinistra ai suoi piedi».


Si potrebbe poi scrivere una frase di Eric Fromm sulle schiene di questi intellettuali: «L'uomo non vende solo merci: vende anche se stesso».
Marcello D’Orta

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