E Macerata risponde con l’estro di Pizzi

Paolo Scotti

da Macerata

A volte basta poco, per cogliere l’essenza di uno stile. Così venerdì sera è bastato metter piede nello Sferisterio di Macerata, per sentire l’aria nuova che spirava nell’antica Arena. Un’enorme pedana bianco-argentea, sormontata da tre portali neoclassici in cima ad una scalinata a tre rampe, sostituiva il vecchio palco lungo e stretto, che generazioni di scenografi avevano sudato sangue per rendere accettabile. Alte colonne neoclassiche, due tempietti diroccati, il tutto immerso in una lunare atmosfera rarefatta di fascinosa essenzialità. Lo stile di Pier Luigi Pizzi, insomma: tale da qualificare subito il nuovo corso dello Sferisterio Opera Festival. Ovvero della stagione maceratese che, mutato nome, da oggi è affidata proprio a lui: ad uno dei più ammirati registi-scenografi-costumisti del mondo.
E allora diciamo subito che un Flauto Magico come quello che un pubblico strabocchevole (esauritissime le uniche tre repliche) ha felicemente accolto venerdì, è difficile da vedere in un’arena estiva. Perché esiste ancora il preconcetto che opera all’aperto significhi sagra nazional-popolare; e perché, pur tra le popolari opere mozartiane, il Flauto Magico occupa ancora la posizione di capolavoro «difficile». Come tutti sanno Amadeus lo compose in omaggio alla cultura massonica e secondo il suo linguaggio. Oggi che quella cultura e quel linguaggio sono superati e anzi deprecati, dalla nostra sensibilità cristiana, tutto l’armamentario esotico dell’opera viene generalmente trascurato a favore della più accattivante dimensione favolistica. Da par suo, Pizzi imbocca invece una terza, audace strada. Fa piazza pulita tanto della chincaglieria egizio-babilonese quanto delle estrosità fiabesche e interpreta il viaggio del principe Tamino come il percorso iniziatico della ragione verso i principii illuministici della pace e della fraternità. Non a caso questo è anche il valore portante della celebrata capacità di sintesi e della squisita eleganza espressiva del regista.
Ecco allora tutto il colossale mondo del Flauto raccolto (senza bisogno di cambi scena, col solo ausilio delle luci di Sergio Rossi) sulla triplice scalinata; ecco tutta la complessa trama semplificata da una regia tanto limpida quando essenziale; eccone gli eroi finalmente resi (nei movimenti come nei costumi, di esemplare linearità) umani e accessibili. Fino all’inedito abbraccio di pace conclusivo.


Guidato dalla bacchetta un po’ trafelata di Guillaume Tourniaire, un giovane cast dà buona prova di sé soprattutto nell’esuberante vigoria di Andrea Concetti (Papageno), nell’ingenua purezza di Dimitri Korchak (Tamino), nel composto virtuosismo di Victoria Joyce (Regina della Notte). Non sempre a fuoco la Pamina di Angeles Gulin e il Sarastro di Panajotis Iconomou. Tutti comunque festosamente accomunati da caldissimi applausi conclusivi.

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