E ora anche le monache marciano con i bonzi contro la giunta birmana

da Yangon

Al sesto giorno di protesta dei monaci contro la dittatura militare in Myanmar (ex Birmania), ieri anche le monache buddhiste sono scese in piazza a Yangon (il nuovo nome dell’ex capitale Rangoon) sfilando al fianco di 20.000 bonzi e civili. Contemporaneamente, alla vigilia dell’Assemblea generale dell’Onu a New York, cresce la pressione internazionale sui generali di Naypdydaw (la nuova capitale) affinché rinuncino al potere e consentano libere elezioni. Quella di ieri è stata la più imponente manifestazione di piazza (e la maggiore dopo la sollevazione del 1988, che fu soffocata nel sangue) dall’inizio della protesta, esplosa cinque settimane fa a causa dell’aumento dei prezzi dei carburanti, che ha fatto raddoppiare il costo dei mezzi pubblici e del cibo.
Sabato, eccezionalmente, i monaci erano stati autorizzati a sfilare accanto alla villa della leader dell’opposizione e premio Nobel per la pace 1995 Aung San Suu Kyi, a Yangon. La donna, 62 anni, che ha trascorso 12 degli ultimi 18 anni nella sua residenza-prigione ed è divenuta il simbolo della lotta per la democrazia nel Paese asiatico, si era brevemente affacciata alla porta e aveva salutato i religiosi, piangendo e pregando. Ma ieri, quando 120 bonzi e altre decine di manifestanti hanno tentato di imboccare la strada che porta alla villa, hanno trovato l’accesso alla strada bloccato di nuovo dalla polizia.
Le manifestazioni di ieri hanno preso il via dalla celebre pagoda Shwedagon, uno splendido complesso di templi che costituisce la principale attrazione turistica della ex Birmania. I monaci, avvolti nei loro sai e mantelli color ruggine, hanno marciato a piedi nudi, sotto la pioggia battente, fino alla pagoda di Sule, nel centro della città. Al termine del corteo i manifestanti erano circa 20.000, la metà dei quali gente comune, hanno riferito testimoni.
I bonzi erano accompagnati per la prima volta da 150 monache, con le tradizionali tonache rosa chiaro. Le suore buddhiste abitualmente sono più defilate rispetto ai loro colleghi e non partecipano alla vita politica.
Circa 200 persone, dando prova di coraggio, hanno formato una catena umana davanti ad alcune file di giovani monaci, e hanno esortato la gente a unirsi a loro nella protesta. «Vogliamo la riconciliazione nazionale, il dialogo con i militari e la libertà per Aung San Suu Kyi e gli altri prigionieri politici», ha detto al megafono uno dei religiosi. Fino all’altro giorno i monaci avevano evitato di coinvolgere i civili in marce e raduni, nel timore di una nuova, sanguinosa repressione. Cortei contro la dittatura si sono tenuti anche ieri in altre città, tra cui Maqwe e Mandalay, seconda città del Paese e importante centro religioso. La polizia sta procedendo con numerosi arresti, evitando però, almeno finora, di ricorrere alle armi. La giunta non vuole peggiorare la propria immagine all’estero.
Il segretario di Stato americano, la signora Condoleezza Rice, ha denunciato ieri il regime «brutale» al potere nel Myanmar e ha dichiarato di seguire «molto da vicino» la situazione nell’ex Birmania. «Il presidente George W. Bush è stato molto franco su quel che sta succedendo nel Myanmar», ha detto la Rice all’inizio di un incontro con il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi.

All’inizio di settembre Bush aveva esortato la giunta a «smettere di intimidire i cittadini birmani che si battono per la democrazia e i diritti dell’uomo» e a «liberare tutti i prigionieri politici, compresa la dissidente Aung San Suu Kyi.

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