Controcultura

E ora i conservatori imparino a costruire

Negli Usa tre libri invitano i movimenti anti-élite a formulare programmi coerenti

E ora i conservatori imparino a costruire

Nazional-conservatori, trumpiani, sovranisti, populisti, anti establishment: è venuto il momento di costruire. Dopo l'orda d'oro scatenata dalla Grande Recessione del 2007, dalla crisi migratoria, dal terrorismo, dall'ulteriore torsione antidemocratica della Ue, dal diffondersi della violenta ideologia progressista, dopo tutto questo, che ha prodotto la Brexit, l'elezione di Trump, la crescita dei movimenti sovranisti e lo sgretolarsi dei sistemi politici europei, sembra venuto il momento di costruire. Dopo la pars destrunens quella construens, l'orda d'oro della reazione nazionale e popolare deve ora dimostrare di saper governare e di proporre un modello di società, se non opposta, almeno diversa da quella liberal-globalista che ha contestato.

È soprattutto dagli Stati Uniti che questo monito si alza più squillante. Capiamo subito perché: solo lì (se facciamo eccezione per Ungheria e Polonia) la rivoluzione sovranista ha preso il potere, con Trump. E sono proprio tre libri gravitanti nella larga e variegata galassia conservatrice statunitense che si chiedono come costruire sulle basi della contestazione sovranista. Michael Lind non è proprio tecnicamente un conservatore, si definisce anzi un centrista, ma il suo libro The new class war. Saving Democracy from the Managerial Elite (Portfolio) è forse la ricognizione più lucida delle ragioni che hanno generato l'insorgenza sovranista o, come la chiama l'autore, la controrivoluzione populista, con una connotazione niente affatto negativa. L'economia in questo scenario ha pesato meno della politica e della cultura. In Occidente, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino, domina una nuova classe, un'élite tecnico manageriale, che ha soppiantato la classe politica eletta dai cittadini e ha indebolito le istituzioni rappresentative e il potere esecutivo. Si tratta di un'aristocrazia nel senso dell'ancien régime, costituita soprattutto da Ceo della finanza, attorno ai quali ruota un sottomondo di «creativi» e di tecnici: Steve Bannon l'ha chiamato efficacemente Davos man. Questa aristocrazia, abbarbicata nelle sempre più costose città, in cui ormai può vivere solo lei, sposa l'ideologia progressista, figlia della rivoluzione del Sessantotto - da qui la scelta di chiamare contro rivoluzionari i nazional-conservatori. L'insorgenza populista per Lind è stata ed è sacrosanta perché difende la democrazia, la coesione della società, l'identità delle nazioni. Ma ora deve offrire un modello di governo che dimostri di non essere una semplice reazione: altrimenti la classe tecnico manageriale globalista, che certo non manca di astuzia, saprà trovare i modi per rigenerarsi (e già assistiamo a diversi segnali in questa direzione). Trump non sembra a Lind offrire un percorso coerente ma anche le sue soluzioni ci paiono al di sotto della lucidità delle analisi. Lind risente infatti di una impostazione para-marxista e quel che propone va contraddicendo la sua asserzione iniziale, it's not the economy stupid. Più interessante l'idea di far rinascere le comunità, il little platoon burkiano. Ma i legami sociali non si ricostruiranno attraverso la spesa pubblica, che anzi ha contribuito a indebolirli.

La crisi dell'Occidente è infatti crisi culturale, e, in quanto tale, religiosa. Lo mostra molto bene Christopher Caldwell che, diversamente da Lind, è invece ben lieto di definirsi conservatore, anche perché editor della «Clermont Review of Books», la Bibbia del conservatorismo West Coast e straussiano (dal filosofo Leo Strauss). Il suo non è un libro di analisi e di proposta politica come quello di Lind ma reca la forma di un saggio storico: The Age of Entitlement (Simon and Schuster), una storia degli Stati Uniti dagli anni Sessanta a oggi. Entitlement è parola che rimanda ad avere diritto, nel senso dell'avere titolo a un servizio. È insomma la società dei diritti, contrapposti ai doveri, diritti ben diversi da quelli fondamentali fissati nella Costituzione americana. Tutto ciò che l'individuo vuole e desidera diventa ipso facto un diritto a cui il governo dovrebbe rispondere, in genere elargendo denaro. Ma anche distruggendo i fondamenti dell'esistenza comune: il «diritto» all'aborto al nono mese, cioè il diritto all'omicidio, proposto da alcuni candidati dem alle primarie, è la logica conseguenza della rivoluzione degli anni Sessanta. Rivoluzione che, secondo Caldwell, ha finito per condizionare anche i conservatori. Se non Reagan, molti reaganiani e soprattutto molti repubblicani della generazione bushista, dal punto di vista culturale, altro non erano che libertarians, differenziandosi dalla sinistra solo perché a favore del taglio delle tasse e ostili ai sindacati. Quando con Clinton la sinistra ha fatto cadere anche questi tabù la differenza tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra, si è elisa. Per poi, con il Tea party e con Trump, ricostituirsi su basi nuove. Oggi i repubblicani sono social conservative e non più libertarian, e non sono più free marketers, assai più presenti nei democratici. La presenza di Trump, primo presidente americano, alla recente Marcia della vita è un segno di questo cambiamento.

Più propositivo di tutti il volume di Yuval Levin, fin dal titolo A Time to Build (Basic Books) È una proposta di conservatorismo moderato, se vogliamo usare questo termine ormai senza senso, che invita al dialogo con l'avversario, stigmatizza la polarizzazione, critica la identity politics e la culture war. Studioso di Burke e di Tocqueville, Levin invita a ricostruire le istituzioni, fondate su un common ground etico e religioso condiviso, e a rigenerare una élite diventata egoistica e autoreferenziale. Tutte affermazioni in sé condivisibili e pure da seguire, se non apparissero un po' astratte: la polarizzazione è nelle cose, e se l'avversario ti aggredisce non puoi fargli buffetti. Quanto al tessuto etico religioso, difficile ricostruirlo con le buone intenzioni. Forse è persino impossibile farlo.

E nel sapere che ormai viviamo in un epoca post religiosa, o meglio di nuove religioni posticce, i conservatori dovrebbero capire che bisogna partire dalle fondamenta.

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