E ora il presidente può cominciare a governare gli Usa

Adesso comincia un altro Obama: il presidente. S’è tolto il peso della riforma sanitaria che ha bloccato per mesi l’amministrazione, la Casa Bianca, il Paese. Politicamente ha vinto: non è il contenuto che conta in questo caso, quanto il fatto di essere stato l’unico a far passare una legge che comunque vada entrerà nella storia. L’aveva promesso in campagna elettorale: l’ha realizzata. Non stravolge la vita dei cittadini, non modifica la sostanza della salute degli americani. Non c’è alcuna rivoluzione: la sanità era privata e rimane privata, solo che adesso ci saranno 32 milioni di persone in più che potranno curarsi pagando meno di quanto facessero fino a ora. Non sono i poveri, che hanno sempre avuto l’assistenza sanitaria pubblica e gratuita. È quella classe media troppo ricca per entrare nel programma statale, ma che considerava troppo costoso sottoscrivere un’assicurazione sanitaria. Oggi, grazie alle agevolazioni, agli sgravi e al contributo statale potrà.
Obama, però, non salva nessuno dalla morte, perché gli Stati Uniti non hanno mai lasciato morire nessuno nei loro ospedali. Non volontariamente, come qualcuno vuol far credere. Non per cinismo, come troppi sostengono per dare più peso alla riforma votata domenica notte. Forse il più lucido è stato proprio il presidente: «Questa non è una riforma radicale, ma è una riforma importante». Felice, ma moderato, più di quanto abbiano fatto i media liberal americani ed europei, così eccitati da parlare della nuova legge con un’enfasi che imbarazzerebbe anche lo stesso Obama. Lui che ha vinto, lui che adesso s’è messo a posto con la coscienza e può pensare a guidare il Paese più importante del mondo. Perché nell’attesa del voto, la Casa Bianca s’è fermata. È come se Obama sia rimasto in campagna elettorale perenne, con l’idea fissa di approvare questo provvedimento che aveva garantito e sul quale aveva giocato parte dell’ultima tranche della volata verso la presidenza. Quattordici mesi di governo nei quali è crollato nella popolarità e nel gradimento della gente, quattordici mesi in cui c’è stata la crisi economico-diplomatica con la Cina, quella con Israele, l’incremento delle truppe in Afghanistan, la fase di transizione in Irak, la ripresa della minaccia terroristica sul territorio americano, la crisi economica, il crollo dell’occupazione. E lui? Sembrava concentrato solo sul giardino di casa: su quella riforma sanitaria che mezza America non ha mai voluto e della quale invece il presidente era ostinatamente convinto. Il voto di domenica ha cancellato i fantasmi del fallimento, l’idea, che cominciava a serpeggiare, di un presidente debole e incapace di affrontare e risolvere i problemi. Così ecco il primo effetto: in un giorno, Barack ha ripreso tre punti nei sondaggi. L’America ha bisogno di un leader: uno capace di decidere, uno capace di vincere. Domenica sera, Obama ha vinto: ha sfidato l’impopolarità per mantenere fede a una promessa elettorale. Può non piacere questa riforma, può non convincere il modo con il quale è stata ottenuta, però è arrivata perché c’è stato un uomo che c’ha creduto e non ha mollato: un candidato che adesso si può trasformare in presidente. S’è preso il posto nella storia che la propaganda gli riserverà al di là della portata reale della riforma sanitaria. Preso questo, c’è il resto: la leadership globale in grado di risollevare il Paese dalla crisi economica e sociale nella quale è piombato negli ultimi venti mesi. Senza la zavorra psicologica della sanità, Obama può dirci chi è, finalmente. Resta un fenomenale personaggio mediatico, capace di creare aspettative e attese, di calamitare l’attenzione mondiale su qualunque cosa faccia o dica. Il problema è sempre stato uno: basta questo a diventare un grande presidente? Solo che il problema adesso è più grande: tra sette mesi e mezzo l’America vota di nuovo, rinnova tutta la Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Sarà un referendum su Obama, perché se i democratici fossero sconfitti, significherebbe che gli americani non hanno creduto al presidente e vogliono azzopparlo con un Congresso in mano all’opposizione. Ecco: questi sette mesi e mezzo ci diranno chi è Barack. Come si muoverà? La sua campagna elettorale non sarà più fatta di parole. Yes we can non può essere più un principio vuoto, ma solo un programma reale. Si può fare? Allora si fa.

Obama il presidente deve risollevare l’economia, deve dare una risposta a Israele, deve mostrare forza contro i terroristi di Al Qaida, deve neutralizzare la minaccia dell’Iran. Come farà è un suo problema. Non c’è più la scusa della riforma epocale: quella è arrivata. Ora c’è il mondo.

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