E Parisi predica nella Camera deserta

Appena 37 i deputati presenti. In aula nessun ministro, Rifondazione e An i gruppi più numerosi

E Parisi predica nella Camera deserta
Roma - Non è forse eccezionale il momento? Non si è voltata pagina di fronte ai rapimenti del terrorismo islamico? Non avevano chiesto tutti, da sinistra a destra, che il governo venisse urgentemente a riferire in Parlamento? Ore 17,20 di ieri, aula di Montecitorio: il ministro della Difesa riferisce sul sequestro in Afghanistan dei due agenti del Sismi e sul blitz che li ha liberati, ma ad ascoltarlo non ci son nemmeno i 44 gatti dello Zecchino d’oro. È più affollata la tribuna stampa dell’aula. Nell’onorevole uditorio si contano 37 rappresentanti della nazione, compreso il presidente Fausto Bertinotti che almeno non s’è fatto sostituire.

Anche il governo latita. Passi per Romano Prodi e Massimo D’Alema impegnati a New York, ma non c’era su piazza nemmeno un ministro per confortare il collega? No, al fianco di Arturo Parisi siede il solo Ugo Intini, viceministro degli Esteri. I deputati? Maggioranza 19, opposizione 16. Unico big, Gianfranco Fini. Deserti i banchi di Udc e Lega, forse tutti impegnati al matrimonio di Carolina Lussana e Giuseppe Galati. I gruppi più «numerosi» sono quelli di An e Rifondazione, 5 deputati ognuno, compresi Fini e Andrea Ronchi a destra, il segretario Franco Giordano e Gennaro Migliore a sinistra. Per il gruppone dell’Ulivo c’è soltanto Sergio Mattarella, per Forza Italia Margherita Boniver. L’unico a non snobbare la seduta è il piccolo Pri, con Giorgio La Malfa e Francesco Nucara.

E va bene che Bertinotti ha annunciato 52 deputati in missione, ma dove sono gli altri 543? E va bene che le nozze tra un postdemocristiano e una leghista sono un evento anch’esso eccezionale, ma la richiesta «urgente» di ascoltare Parisi non era firmata da tutta la Cdl? E va bene che l’invocare il «via subito dall’Afghanistan» è una giaculatoria ormai trita e ritrita anche per le beghine più allenate, ma almeno per ravvivare le polemiche, Oliviero Diliberto segretario del Pdci, non poteva venirla a tuonarla nella sacralità del Parlamento?

Niente. Ma nel deserto della Camera il ministro avanzava ugualmente imperterrito, fiero e sicuro di quanto ha deciso, pur conscio della bufera che gli si scatenerà addosso se uno dei due agenti feriti non dovesse farcela. Lui del resto, non aveva la minima intenzione di sottrarsi alla chiamata: tanto a Bertinotti quanto a Franco Marini aveva fatto sapere di esser pronto a presentarsi in qualunque momento, anche di buon mattino. Gli han dato appuntamento a sera, ed ha preso a riferire come se l’aula fosse stracolma. Con commozione, ha parlato del collaboratore afghano caduto nel blitz. Con fierezza, ha affermato che questa volta - ricordate il caso Mastrogiacomo? - l’Italia «ha avuto la totale solidarietà degli alleati, del governo afghano, del segretario generale dell’Onu». Con lucidità ha spiegato che è «indispensabile la coesione della comunità internazionale e la gestione collettiva» dei problemi della sicurezza «che non ha più limiti territoriali». Con rispetto, ha elogiato i nostri uomini impegnati laggiù, «personale di eccezionale valore, dotato di un altissimo senso dello Stato che lo spinge a rischiare personalmente, anche molto, anche la vita, per l’interesse dalla Repubblica».

E con orgoglio, ha rivendicato la paternità del via libera al blitz - «d’intesa» col premier, ci mancherebbe - affermando davanti al Parlamento assente che sua è stata «l’autorizzazione a pianificare ed eventualmente condurre un’azione per la liberazione degli ostaggi», imponendo però «direttive chiare», cioè la salvaguardia dei quattro rapiti e la riduzione al minimo del rischio di vittime civili.

Era notte qui, mentre Parisi parlava al telefono con Prodi a New York. Non gli ci è voluto molto tempo per convincerlo; e con poche, stringenti parole ha posto il premier nelle condizioni di non potersi sottrarre. «Romano, questo è il momento di agire, non possiamo tentennare», gli ha spiegato convinto che il caso del giornalista di Repubblica «ha insegnato molte cose»: prima di tutte che la gestione non può essere affidata a «troppe mani», men che mai se «esterne al governo». Hailé Sélassié è uomo mite ma granitico, quando s’impunta fa a fette anche la mortadella.
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