Il mio testo non è un trattato accademico, non sono né uno storico né un filosofo; non è neppure un'inchiesta giornalistica, e men che meno un rapporto da specialista dell'islamismo, e di certo non un saggio di islamistica. È la riflessione di un testimone, di un uomo il cui paese, nella fattispecie l'Algeria, si è dovuto misurare molto presto con l'islamismo, fenomeno che fino a quel momento gli era ignoto.
Lo abbiamo visto arrivare negli anni Sessanta, all'indomani dell'indipendenza (1962). Uscivamo da centotrentadue anni di colonizzazione francese e da una guerra di liberazione durata otto terribili anni (1954-1962), che aveva causato centinaia di migliaia di morti.
Questo vento religioso ci è stato portato da predicatori discreti venuti dal Medio Oriente, per lo più membri dei Fratelli musulmani, allora perseguitati nei loro paesi: l'Egitto, dove Sayyid Qutb, ideologo dell'islamismo radicale e militante dei Fratelli musulmani, era stato condannato a morte e impiccato per ordine del presidente Nasser; la Siria, dove il presidente Hafez al-Assad rendeva loro la vita dura e in seguito, nel 1982, avrebbe perfino raso al suolo la città di Hama, il loro feudo; l'Iraq, dove il partito laico Baath esercitava un controllo assoluto sulla società; la Giordania, dove re Hussein reprimeva implacabilmente islamisti e palestinesi; lo Yemen del Sud, governato da un partito marxista-leninista che aborriva i religiosi, o così ci venne detto. E ci è stato portato anche da altri individui ancora più discreti, predicatori wahhabiti spediti dall'Arabia Saudita, custode dei luoghi santi, con l'intento di inculcare un po' d'islam nel nostro povero paese tanto a lungo colonizzato dai francesi, cristiani laici e razionalisti.
Li abbiamo accolti con simpatia, un po' divertiti dal loro abbigliamento stravagante e folkloristico, dallo zelo religioso, dai modi melliflui e dai discorsi pieni di magia e di immagini folgoranti. Erano uno spettacolo nell'Algeria di quegli anni, socialista, rivoluzionaria, terzomondista, materialista fino alla punta dei capelli, che in tutto il mondo progressista veniva definita con ammirazione «la Mecca dei rivoluzionari» e che ogni giorno accoglieva e con quale fervore , gli eroi dell'epoca. (...)
Qualche anno più tardi scoprimmo, quasi all'improvviso, che quell'islamismo che ci sembrava così misero e insignificante si era diffuso in tutto il paese, attraverso la rete delle moschee e dei suk, dove dispensava sermoni e distribuiva manuali, e aveva conquistato il cuore della gente, in particolare dei giovani, in rotta con il mondo angusto e privo di orizzonti promesso loro dal socialismo burocratico al potere. Li guardavamo ammirati: negli occhi di quei «pazzi di Allah» c'era una forza che sembrava in grado di smuovere le montagne. Poi li abbiamo visti moltiplicare le rivendicazioni sociali e culturali, fatte di divieti e obblighi molto precisi, che il potere preoccupato, dopo aver perso nel corso degli anni gran parte della sua carica rivoluzionaria e dell'aura eroica , faceva propri con vergognoso zelo tattico, sprofondando così il paese in una regressione mentale gravida di tanti pericoli. Niente più mescolanza rivoluzionaria fra studenti e studentesse e abitini leggeri che donavano tanto alle ragazze. (...)
Poi abbiamo visto l'islamismo radicalizzarsi anno dopo anno, nel contesto mondiale di tensione creato dalle umilianti sconfitte arabe del 1967 e del 1973 contro Israele, dalle guerre in Iraq (quella del 1990-1991 e quella del 2003, denominata Iraqi Freedom), dalle guerre in Afghanistan (a partire dal 2001) e in Bosnia-Erzegovina (1992-1995), per le quali ha reclutato molti combattenti (come, sia detto per inciso, stranamente non ha mai fatto per la Palestina, neppure oggi che a Gaza esiste un partito islamista, Hamas, che dispone di un braccio armato pronto a tutto, le brigate Izz al-Din al-Qassam). Prima sconosciuto e perseguitato, l'islamismo è divenuto un fenomeno planetario, pensa il mondo e tenta di ridisegnarlo con due armi che padroneggia alla perfezione: il terrore e la predicazione. (...)
Abbiamo anche visto gli islamisti dare prova di grande abilità in termini di strategia e di comunicazione a livello nazionale e internazionale, nettamente superiore a quella del governo, impantanato nella sua burocrazia e soprattutto diviso sul modo di «gestire» l'islamismo: estirparlo, come volevano i capi dell'esercito, i cosiddetti «sradicatori», oppure negoziare e concedergli uno spazio al potere come raccomandavano i politici, i cosiddetti «recuperatori». Poiché quei giochi di clan mascheravano questioni di potere, sradicatori e recuperatori si fecero la guerra, e le morti misteriose si moltiplicarono. Gli islamisti, atteggiandosi a vittime dei malvagi generali, riuscirono senza difficoltà a convincere i governi occidentali (ma non l'opinione pubblica di quei paesi, che avvertiva con chiarezza come l'islamismo fosse una minaccia che un giorno avrebbe conquistato l'intero pianeta) della legittimità della loro lotta, in base all'indiscutibile argomento che avevano vinto le elezioni, e al tempo stesso fecero di tutto per esportare la rivoluzione islamica in altri paesi arabi in primo luogo in Marocco e in Tunisia, ma anche in Europa, in Francia soprattutto, per punirla di avere a lungo appoggiato l'empia dittatura di Algeri , allo scopo di creare una dinamica globale irreversibile, da loro definita «il jihad contro ebrei e crociati» o «il grande jihad per Allah». Queste espressioni che sentivamo per la prima volta, abituati agli slogan dell'Internazionale socialista, avevano una forza apocalittica che esaltava gli uni e lasciava impietriti gli altri. Realmente un mondo finiva e un altro aveva inizio.
Quando alcuni islamisti dissidenti del Fis, che ritenevano i loro capi troppo indecisi nel guidare il jihad o addirittura tentati di negoziare con il governo, formarono i Gia, i Gruppi islamici armati di triste memoria, apprendemmo dai loro comunicati che non erano solo in guerra contro un regime dispotico e corrotto (guadagnandosi un sostegno piuttosto generale) e contro i paesi occidentali che appoggiavano regimi similari (guadagnandosi così ulteriore sostegno), ma erano in guerra contro religioni, contro etnie, civiltà e culture.
Il modello a cui guardare erano i talebani dell'Afghanistan: volevano eguagliare se non superare i loro successi e restaurare il califfato, considerato lo Stato islamico perfetto dove non avrebbe avuto posto alcun infedele, alcun fedele ipocrita. Lo slogan che scandivano brandendo il Corano era: «Per questo viviamo, per questo moriremo».© Copyright Neri Pozza 2018
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