E Piero resta solo nella battaglia sul partito unico

Il segretario: «Il duello tra moderati e massimalisti è una strumentalizzazione. Non porterò mai i Ds fuori dal Pse». Le pensioni cancellate dall’agenda del vertice per evitare nuove divisioni

da Roma

L’agenda di Piero Fassino è intensa, e se c’è una cosa che nessuno può rimproverare al leader ds è di non cercare sempre di presidiare ogni fronte che vede aprirsi dentro o fuori il suo partito, spendendosi con generosità. E i fronti sono molti. I più urgenti, per lui, sono quello del governo e del ruolo propulsore che i ds vogliono cercare di avere, e quello del Partito democratico. Che passa per un congresso assai difficile da gestire.
Ieri Fassino ha provato a rassicurare il Correntone, spiegando che «non ho intenzione di portare i ds fuori dal Pse». Così come si inalbera se qualcuno gli chiede se e quando i ds si scioglieranno nel nuovo contenitore o se quello fissato per aprile sarà l’ultimo congresso della Quercia: a rigor di logica è così, ma affermarlo provocherebbe un terremoto interno al partito, ed accelererebbe la scissione. Problema del quale né Prodi né Rutelli, che dovrebbero essere i più stretti alleati di Fassino nella partita, si vogliono fare minimamente carico. Anzi, la Margherita continua ad accelerare, strattonando la Quercia: nella mozione congressuale parla esplicitamente di «scioglimento» (mentre Fassino usa la formula «confluenza»), e i suoi esponenti principali ribadiscono che mai e poi mai la collocazione internazionale del Partito democratico potrà essere nel Pse. E mentre la Margherita soffia sul fuoco delle contraddizioni diessine, Prodi che fa per aiutare la nascita di quel nuovo soggetto che lui per primo ha voluto? Nulla, lamentano al Botteghino. Il Professore si tiene alla larga dalla faccenda: ha spiegato che da capo del governo non può occuparsi direttamente della cucina politica di quello che è solo un pezzo della sua maggioranza. Ma il sospetto in casa ds è che ci sia qualcosa di più di una distanza istituzionale, anche perché il premier non perde occasione di spuntare le unghie a quello che doveva essere il «timone riformista» del governo, e a privilegiare il dialogo con l’ala radicale della coalizione.
Fassino guida la battaglia da solo: era il meno convinto, quando D’Alema lo spinse ad accogliere le richieste di Prodi, ma ora ha legato il proprio destino a quel progetto. Con la legittima aspirazione ad assumerne la leadership, quando nel 2009 non sarà più segretario dei ds perché i ds non ci saranno più, e a correre per la guida dell’intera coalizione. Ma la strada è tutt’altro che in discesa: il prodianissimo Santagata ieri ha lanciato Veltroni come «leader più attrezzato a sostituire Prodi», e si capisce che il Professore voglia tenersi buono un antagonista assai popolare e benvisto in ambienti che contano (vedi Repubblica). Fassino ribatte che si deciderà con le primarie, e che i concorrenti saranno molti, «da Rutelli a D’Alema».

Già, D’Alema: i fassiniani assicurano che la sua ambizione sia di riprovare a fare il padre della patria candidandosi come successore di Napolitano. Ma sospettano che, a più breve scadenza, non disdegnerebbe un ritorno con tutti i crismi a Palazzo Chigi. Scelta che sbarrerebbe la strada a Fassino.

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