E' solo un copia e incolla kitsch e furbacchione

E basta col copia e incolla anche in musica! Va bene che funziona alla grande e i discografici, con questi chiari di luna, farebbero cantare anche uno gnu per vendere dischi. Però, accidenti, il remix è una bella furbata, alla faccia della creatività. Prendi un dj illuminato, acquisti come un pacchetto vacanze un classico dall’appeal particolare (appunto Tu vuo’ fa’ l’americano come hanno fatto gli Yolanda Be Cool), non cambi neppure la voce di Carosone (in questo caso il testo è stato cambiato ma di solito si riprendono pari pari anche le parole), manipoli il ritmo con software e diavolerie varie in modo da ottenere un ossessivo e assordante ritmo dance, house o come diavolo lo vuoi chiamare, e hai vinto un soggiorno con vista sulle vette della hit parade di mezzo mondo.

Ok, i remix si fanno da anni - dalle scellerate degenerazioni della scellerata disco music, ma la globalizzazione ha portato inquietanti incroci trasversali - come questo degli australiani Yolanda Be Cool che Napoli non sanno neppure che esiste e chissà dove sono andati a scovare Carosone fra i canguri. O come quello del serbo Gramophonedzie, che s’è piazzato al numero Uno delle classifiche dance inglesi con Why Don’t You?, recuperando un brano (Why Don’t You Do Right) del chitarrista blues Kansas Joe McCoy, popolarissimo negli anni Trenta (anche in coppia con Memphis Minnie) ma ricordato solo da fanatici appassionati come noi. E allora benedetti i remix, che riscoprono il passato e le vecchie glorie? No, anzi, perché il remix è una pura operazione kitsch e furbacchiona per scardinare le porte del successo. Spesso oltre quel “tapum tapum” ossessivo c’è il vuoto pneumatico; e puoi condirlo anche con video divertenti ma il risultato non cambia. È una tappezzeria musicale.

Ma la musica serve anche per distrarsi - diranno molti - per rilassarsi, per scatenarsi nei locali e chi se la prende coi remix è un vecchio trombone (un ascoltatore risentito, direbbe Adorno) senza senso dell’umorismo. Può darsi, ma il copia e incolla è un banale frutto della filosofia massimo risultato col minimo sforzo; qualcuno è interessante (prendi I Miss You dei Rolling Stones di Dr Dre), ma la maggior parte sono abominevoli (il «madrigale» dei Led Zeppelin Stairway to Heaven massacrato dalla terribile Jana). Certo non è utile serve al rock in crisi d’identità, cresciuto perché gli Who hanno violentato Summertime Blues di Eddie Cochran e Jimi Hendrix ha fatto venire un colpo apoplettico a Chuck Berry rileggendo Johnny B. Goode. La creatività nasce dal disintegrare e rinnovare il passato, il remix è merce di scambio destinata a far soldi (come il tormentone, ma almeno quello ha origini nobili visto che lo inventò lo scrittore maledetto Boris Vian quando scrisse nel 1957 Le tube). Non illudiamoci, tutto il rock è business e senza il mondo degli affari non potrebbe esistere, ma attenzione, anche nella musica di consumo qualità e divertimento sono due specchi disassati difficili da mettere insieme (nei remix non ci si riesce praticamente mai).

Si diverta, chi si accontenta, coi remix, ma occhio a non scendere troppo di livello (e non siamo lontani) da nefasti periodi come quello dove all’insegna dell’«ora che Elvis è nell’esercito creeremo un esercito di Elvis») esplosero una valanga di cloni-bambini senza talento come Fabian, Adam Faith, Bobby Vee...

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