E sullo sciopero tra i sindacati solita guerra di cifre

Ai suoi collaboratori più vicini Sergio Marchionne ha confessato che, sulla questione «Fabbrica Italia», non ha saputo far passare negli stabilimenti Fiat il messaggio reale. Da qui le strumentalizzazioni da parte di Fiom e Cgil, «le campagne mediatiche piene di bugie» fatte bere agli operai, «i commenti sui sindacati americani e polacchi, tutti inventati di sana pianta, visto che chi li ha fatti non ha mai messo piede in quei Paesi». Un mea culpa sincero che, probabilmente, sarebbe stato evitato se l’amministratore delegato della Fiat avesse adottato in Italia la stessa strategia applicata negli Stati Uniti: farsi vedere negli impianti, girare per le linee di montaggio della Chrysler e parlare con le tute blu americane.
In Italia, con il clima incandescente che si respira nelle fabbriche, tutto questo sarebbe possibile? Se lo stesso Marchionne e i suoi collaboratori avessero dialogato di più con gli operai si sarebbe andati ai referendum di Pomigliano e Mirafiori con le tensioni più allentate? Il problema emerso, e che lo stesso top manager ha evidenziato, riguarda l’accusa strumentale di atteggiamento antisindacale che gli sarebbe piovuta addosso. In pratica, una mossa del genere (parlare direttamente ai lavoratori e non solo per lettera), anche se a nostro parere necessaria, avrebbe rischiato di acuire lo scontro con la parte operaia vicina alla Fiom, tipo: «Arriva il padrone a dettare legge».
Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom-Cgil, in proposito, ha le idee chiare: «In nessuna fabbrica - precisa al Giornale - i manager fanno assemblee. Marchionne, poi, non è abituato al contraddittorio. Vive fuori dal mondo». È chiaro, a questo punto, che un intervento di Marchionne in uno degli stabilimenti sarebbe stato fatto passare come pesante interferenza, una sorta di provocazione. Quindi, se a Detroit e dintorni il top manager italiano che ha risollevato la Chrysler viene salutato con gli applausi, in Italia la sua apparizione lungo le linee di assemblaggio avrebbe rischiato (e rischierebbe) di creare scompiglio tra le stesse tute blu (pro e contro) con tutti i problemi che ne conseguirebbero. Anche Roberto Di Maulo, segretario generale della Fismic, sindacato collocato al polo opposto rispetto alla Fiom, parla schiettamente e dà ragione a Marchionne sul fatto di non essere riuscito a far passare nel modo dovuto il messaggio sulla «svolta» tra i dipendenti. «Il tema dei salari e della volontà di arrivare a buste paga più pesanti doveva essere detto sin dall’inizio - osserva Di Maulo - e lo stesso ragionamento vale quando si parla del piano “Help and safety first”, ovvero salute e sicurezza come priorità. È un’iniziativa di grande rilievo che fa dialogare insieme fattivamente operaio, sindacati e direttore dello stabilimento. Anche questo aspetto doveva essere spiegato meglio e subito, coinvolgendo di più dirigenti e capi all’interno delle fabbriche. L’ambito delle risorse umane, invece, è stato depotenziato a vantaggio dell’ingegnerizzazione. Bisognava riuscire a dare il senso dell’operazione».


Comunque, c’è ancora tempo per recuperare, visto che all’appello mancano Sevel Val di Sangro, Melfi, Cassino e gli impianti dove vengono prodotti i motori (Torino, Termoli e Pratola Serra). Il dialogo diretto, in qualche modo, deve riprendere. Senza barriere o barricate.

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