Gli Eagles in cravatta hanno ancora la voce da magnifici cowboy

Per la band il tempo sembra non passare. In crisi invece il canto di Crosby Stills e Nash

Gli Eagles in cravatta hanno ancora la voce da magnifici cowboy

Guardiamo le foto dell’altro ieri al Forum di Milano degli Eagles. Don Henley e Glen Frey (i Lennon - McCartney della California) con capelli corti, abito e cravatta nera su camicia bianca ricordano vagamente il Mr Big di Sex & the City; Timothy Schmit e il duro chitarrista Joe Walsh hanno lo stesso vestito e solo i capelli lunghissimi tradiscono le inquietudini del passato. Confrontiamole con quelle degli anni 70, quando vivevano di trasgressione e vestivano da cowboy al di là della suggestiva copertina dell’album Desperado, coltivando il mito (o stereotipo!?!) di sesso droga e r’n’r. Sembrano uomini e mondi diverse, ma c’è la sorpresa. Gli Eagles dei 60 anni hanno cambiato look e abitudini ma hanno un fisico bestiale e le loro voci non sono per nulla cambiate. Miracolo? Ascoltate le armonie vocali di Take it to the Limit o di I Can Tell You Why e vi sembrerà che il tempo non sia passato. Voci che non hanno perso espressività e potenza negli abbandoni melodici che sono il marchio di fabbrica del loro immortale country rock. Evidentemente c’è un dio del rock che li protegge; un tempo noti come «i cowboy della cocaina», hanno zigzagato attraverso «la vita sulla corsia di sorpasso» (dal titolo di un loro celebre brano) vivendo nel mezzo di una pista da corsa senza farsi travolgere. «Quando eravamo rockstar a tempo pieno i danni li abbiamo pagati con gli interessi», ricorda Henley, compiaciuto di se stesso e della sua band che fattura più di una multinazionale. Massimo risultato col minimo sforzo; sette dischi in 37 anni (non è che non abbiano risparmiato energie), oltre 120 milioni di album venduti, un’antologia che ha staccato Thriller di Michael Jackson in vetta alla hit dei dischi più venduti di sempre. Un palmares da ridere per i ragazzotti che dal ’71 - seguendo le intuizioni dei Byrds, di Dylan, dei Grateful Dead - han fatto i miliardi col country rock. Ora è tutta un’altra storia; Henley ad esempio nelle narici ha una pellicola di teflon al posto della mucosa (miracoli della chirurgia moderna), Frey ha battuto vizi e stravizi (la voglia di rifugiarsi sempre nel «nulla esistenziale») e nel loro concerto, tra voci perfette e meravigliosi impasti strumentali, sembra che il tempo non sia passato. Cantano e suonano tre ore e più come fossero ragazzini, e non importa se qualcuno li considera troppo «leccati».

Altra musica, è il caso di dirlo, per i loro «fratelli in armi» Crosby Stills Nash & Young. Vabbè che ne hanno passate di tutti i colori (Crosby, nume tutelare del movimento country rock, oltre agli stravolgimenti da eroina ha subìto un trapianto di fegato, è stato in manicomio e chi più ne ha più ne metta; Young è stato da poco operato per un’aneurisma cerebrale; Stills non è messo molto meglio) però la loro ultima tournée in quartetto, con omonimo cd dal vivo, è stata piuttosto imbarazzante. Quattro voci che facevano cose strepitose ora sono fiacche e sfiatate. Crosby da solo emoziona anche se sussurra; l’anarchica voce di Young è sempre inimitabile; Stills da solista è alla frutta anche se il mestiere e l’emozionalità dei suoi classici è stata premiata dal pubblico milanese con applausi sinceri.
Nel rock, si sa, non conta il belcanto ma l’emozione, pensiamo alle voci sconvolte di Dylan e Tom Waits. Però a tutto c’è un limite; Ian Anderson, meraviglioso flauto dei Jethro Tull, passa ancora il tempo in tour con la band e tra poco sarà a Todi. Ultrasessantenne d’assalto, ancora oggi acconciato a metà strada tra un pirata e il pifferaio di Hamelin, piroetta sul palco come un giovincello, fa i suoi assolo di flauto in equilibrio su una sola gamba, ma la voce si è parecchio affievolita. È eroico quando intona Aqualung verso la fine dei concerti, usando tutti i trucchi del mestiere quando la voce scende in cantina, il tono si fa monocorde e si perde nel fragore dei suoni. Fa una fatica boia, ma il pubblico apprezza i suoi sforzi e lo premia sempre con incredibili ovazioni (i rockfan sono spesso crudeli, ma sensibili al culto del personaggio «vero»).

Sarebbe un extraterrestre Ian Gillan se riuscisse a 60 anni suonati a replicare gli acuti belluini di Child In Time, superclassico dei Deep Purple. Oggi gira ancora in tournée con loro, s’è ridimensionato, ha una gamma tonale meno estesa e spesso ha il fiatone ma è ancora un simbolo, anche se un po’ decadente, dell’hard rock d’antan.

Anche l’urlo di Robert Plant, seppur orfano dei Led Zeppelin, non è più lo stesso, tanto che incide dischi - peraltro premiati dal grammy - di country e blues con Allison Krauss. I Rolling Stones naturalmente sono una (magnifica) storia a parte.

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