Eataly sbarca al Rockefeller Center

nostro inviato a Torino
La filiera della qualità agroalimentare italiana: ieri l’altro il Viaggio lungo il Po di Mario Soldati, ieri il lavoro giornalistico-propositivo di Gino Veronelli e poco dopo quello di Carlo Petrini con Slow Food e Terra Madre, oggi Oscar Farinetti, ex signor Euronics, fulminato sulla via della qualità (del cibo e della vita) da tutto il bendidio esposto al Salone del Gusto di inizio millennio. Tutto il resto o appartiene ad altre categorie, penso ad esempio alle felici esperienze del Gambero Rosso, o sono situazioni spesso scopiazzate che giovano soprattutto a chi le promuove.
Farinetti e Eataly, «il più grande centro enogastronomico del mondo» in via Nizza a Torino, arrivando dalla stazione di Porta Nuova subito prima del Lingotto. Non si può sbagliare. In quella che era la fabbrica della Carpano e del celeberrimo Punt e Mes, il 26 gennaio scorso ha aperto un autentico bengodi di cose buone. Eataly è l’applicazione, su vasta scala distributiva, di una filosofia della valorizzazione della terra e del mare che arriva a noi, attraverso le persone e gli eventi citati prima, come l’acqua che sgorga dal Monviso giunge all’Adriatico. In tal senso, la pubblicità in cui lo scrittore Tonino Guerra reclamizzava gli elettrodomestici in vendita alla Euronics, troverebbe una migliore e più logica collocazione in uno spot di Eataly che è la contrazione di Eat Italy, mangia l’Italia.
Non vi è dubbio che la voglia di qualità nel piatto e nel bicchiere, sia come desiderio di coccole golose sia come necessità salutista, è un imperativo che ha superato le ideologie, altrimenti non si spiegherebbe come due autentici comunisti come Petrini e Farinetti (il cui padre è stato un comandante partigiano) siano di moda negli Stati Uniti dove proprio ora Carlin sta promuovendo il suo ultimo libro (che in inglese ha per titolo Slow Food Nation, Why our food Should Be Good, Clean and Fair) e dove Oscar volerà tra pochi giorni per lanciare l’apertura dopo l’estate, nel Rockefeller Center, che non è esattamente un soviet agricolo negli Urali, del secondo emporio. Seguiranno Genova (la Stazione Marittima), Milano (l’area dismessa di fronte al Monumentale, con aperitivo a settembre al Coin di piazza Cinque Giornate) e Bologna.
Eataly mi ha stregato perché è l’applicazione reale - e non politico/sentimental/esclusiva di prodotti di nicchia per pochi eletti, ricchi e snob - di un sincero rapporto tra produzioni di qualità e pubblico quotidiano. In pratica è il Salone del Gusto sei giorni la settimana, con turno di chiusura il lunedì. Undicimila metri quadrati, suddivisi in dieci aree tematiche dalle quali la grande industria è praticamente bandita. Solo che quelle che sono sempre state produzioni minime, i dieci chili di patate viola di un campesinos esibito come un trofeo e poi chi lo vede più, con Farinetti trovano un vasto sbocco commerciale lungo filiere autentiche e in continua espansione. Un esempio: vietata l’importazione negli Stati Uniti di carne europea, ha impiantato tre anni fa un ellevamento oltreoceano così pure il cliente americano potrà comperare la carne italiana della Granda esattamente come io venerdì a Torino.
L’altro punto di forza, tanto che tutte le catene dei supermercati nostrani dovranno a un certo punto fare i conti, ma lo stesso sarà per un Peck a Milano così come per le enoteche visti i prezzi torinesi, è la strutturazione del punto vendita. Nulla di quello che si è finora visto tra gli scaffali. Vi sono dieci aree tematiche a doppia faccia: carne, pesce, salumi e formaggi, verdure, caffè, birra, frutta (abbinata al gelato), pasta, pizza e vino sono sia in vendita che a consumo nel senso che ogni settore ha il banco-acquisti (come carnivoro sono rimasto ipnotizzato da quello della carne che, per motivi opposti, farebbe svenire un vegetariano) e il banco-ristorante, tutto funzionante dalle 10 del mattino alle 10 della sera.

E nella vineria (a proposito, i pensionati hanno uno sconto del 10% su pane e vino sfuso) è racchiuso il ristorante Guido-Casa Vicina, 011.19506840, unico ambiente minimalista, una camera iperbarica dove la ricchezza è tutta e solo nei gusti amalgamati nel piatto, indispensabile per riprendersi dalla sindrome di Stendhal/Farinetti.

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