Perché lì? Perché lo vuole Lui. Nella domanda e nella risposta riposa il destino di Astana. Costruirla è costato, per ora, sette miliardi di euro. E non è finita. Ma poco importa perché Lui lo vuole. Lui è Nursultan Abisshuli Nazarbayev, l’ex operaio trasformatosi, alla scomparsa dell’Unione Sovietica, nell’indiscusso signore del Kazakistan, nell’indisturbato padrone di quello scrigno ricolmo di petrolio e uranio a cavallo tra Asia ed Europa.
Vent’anni dopo Astana è il simbolo di quelle ricchezze e della megalomania del loro padre padrone. È uno scintillante «non luogo» innalzato dove un tempo ruggivano i venti della steppa. È un sfavillio di torri dorate, viali fioriti e piramidi di vetro in un deserto sconfinato dove il clima oscilla tra inverni glaciali a meno 35 e le canicole di estati a più 40. A «Papa Nazarbayev» - come lo chiamano i 16 milioni di sudditi di un regno vasto nove volte l’Italia - poco importa. Lui la vuole lì, in mezzo alle distese degli ex gulag, lontana mille e passa chilometri dalla frontiera cinese, nel cuore di un paesaggio forgiato a sua immagine e piacimento.
E così intorno al boulevard, due chilometri d’asfalto tirati nella steppa, sorgono le chicche di un’inconcepibile «assurdopoli», un palazzo presidenziale dominato da una piramide argentata alta 162 metri, due torrioni conici ricoperti di sfavillante metallo dorato e un’enorme globo anch’esso dorato su colonne di acciaio bianco.
Nella fantasia di Nazarbayev è l’uovo deposto ogni anno sull’albero della vita da Samruk, l’uccello primigenio protagonista della mitologia kazaka. Eppure dietro ci sono anche la matita e il genio di un architetto del rango di Sir Norman Foster. Uno che ha progettato il nuovo Reichstag di Berlino, la London City Hall e lo stadio Camp Nou di Barcellona. Uno che raramente accetta di farsi spiegare come e cosa disegnare. Tranne che ad Astana. Ma poco importa, nella nuova capitale di petrolio e uranio «pecunia non olet». Nel nome dei petroldollari si costruisce, s’incassa e volentieri si tace. E così al termine dei due chilometri di boulevard affiancato da siepi a forma di elefante e giraffa e da tappeti fioriti, ecco il nuovo capolavoro di Sir Norman Foster, la tenda più grande del mondo, l’angolo delle meraviglie, la gigantesca tensostruttura inaugurata lo scorso 5 giugno in onore del 70mo compleanno di papà Nazarbayev. La chiamano «khan shatrit» - tenda reale - svetta per 150 metri di altezza e grazie alla sua plastica semitrasparente garantisce una perenne primavera a 20 gradi. Anche quando l’inverno gela i sassi o il solleone divora la steppa. Lì sotto, su una superficie ampia quanto dieci campi di calcio i sudditi felici di Nazarbayev possono bighellonare tra negozi, saune e ristoranti. Un enorme parco dei divertimenti, un fantascientifico nuovo centro del «ludi circenses» dove sorridere e dimenticare. Dimenticare il volere di un oligarca sempre pronto a stravincere le elezioni con miracolose maggioranze del 95%, di riscrivere la costituzione per garantirsi infinite rielezione, di nominare premier e ministri, di battezzare Nur Otan - Luce della Patria - il proprio partito. Ma Astana è anche l’orgoglio redento di un Kazakistan raccontato nel film Borat di Sacha Baron Cohen come il paese dove si tracanna piscio di cavallo fermentato e si tengono le donne in gabbia. Passeggiando tra le palme dei Caraibi piantate nel «khan shatrit», nuotando tra piscine circondate da sabbia della Malesia, i kazaki possono dimenticare l’insulto di quel film maledetto e vietato, bearsi sotto lo sguardo compassionevole del sovrano ritratto a ogni angolo. E chi non s’accontenta può infilarsi nel museo dedicato al «primo presidente della repubblica di Kazakistan».
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