Si dice cattiva mamma, si legge donna imperfetta, tormentata, angosciata. Ma che ha il coraggio della sincerità, di non nascondersi dietro l’immagine precostituita della famigliola felice e senza spine, senza panni sporchi da lavare (con un figlio, o più, figuriamoci). La prima a farsi avanti, a uscire dalla fila ben composta del mito della maternità, è stata Ayelet Waldman. Americana, è sposata con Michael Chabon, scrittore premio Pulitzer, con cui ha avuto quattro figli e ha fatto scalpore con un pezzo sul New York Times in cui osava confessare di amare il marito più dei loro pargoli. Da allora l’etichetta di genitrice perversa non gliel’ha tolta nessuno, fino a che se l’è data da sola, scrivendo Sono una cattiva mamma (pubblicato in Italia da Rizzoli), un libro che negli States è stato un caso, e poi anche in Europa. Spiega Ayelet (viene da chiamarla così, col nome, quasi in confidenza, tanto racconta dei fatti suoi) che «uno degli spettri più cupi e opprimenti che oggi tormentano noi madri è la paura di essere delle cattive madri, di deludere i nostri figli e le nostre stesse aspettative». E c’è qualcuna che non abbia non il sospetto, in fondo al cuore, ma anzi il terrore, di non essere una buona mamma? «È sempre più facile, e sul momento sembra persino giusto, fingere che vada tutto bene e spingere i propri figli a fare altrettanto. Ma nascondere le cose alla lunga porta alla vergogna».
Arrossiscono, le cattive mamme, pensando di commettere «il più grave dei peccati». E allora esorcizzano parlando: di sé, della famiglia, dei centomila imprevisti quotidiani, degli ostacoli, delle altre mamme che le criticano e le fanno sentire ancora più sbagliate. Perché la «pattuglia anti-cattiva madre» è sempre attiva, pronta a raddrizzare la rotta di chi si è smarrita. Perché niente è più pericoloso dell’occhio che giudica e trova sempre il difetto: e allora l’unica strategia è passare al contrattacco, esagerare sul fronte contrario, dichiararsi pessime madri, quasi fosse una virtù, piuttosto che macerarsi nel senso di colpa. È la stessa tattica seguita da Anette Dowideit, giornalista tedesca che ha sfogato la sua rabbia contro le «madri chioccia» nel suo Mein Job, mein Baby, mein Chef, mein Mann und ich, cioè «Il mio lavoro, mio figlio, il mio capo, mio marito ed io», la lista di tutto ciò che è la sua vita (e lei, la cattiva di turno, arriva comunque in coda). Che è poi la quotidianità di una madre che torna a lavorare, ma finisce per essere giudicata «madre corvo», snaturata. Così ti assedia la Müttermafia, la congrega delle donne perfette: cucinano tutto personalmente, frequentano corsi con i loro bebè, li allattano fino a tre anni, non si arrabbiano mai. Contro di loro combattono le imperfette come Dowideit, affilando gli artigli, per reazione.
Non è difficile capire da dove nasca l’orgoglio della bad mother: dal desiderio di non esserlo, dalla vergogna di sentirsi tale, nonostante gli sforzi. Ci vuole una certa dose di ironia, come quella di Ayelet, per non credere di «aver gettato la spugna», come la accusano le sue detrattrici. Ci vuole ironia, e forza, per risollevarsi dalla depressione e dalla convinzione di essere incapace, come credeva Deborah Papisca. La sua esperienza è raccontata in Di materno avevo solo il latte (Dalai editore) e, come si intuisce dal titolo, non è stata una passeggiata, all’inizio. Ma per qualcuna poi lo è? E quale famiglia non rimane sconvolta dall’arrivo di un piccoletto? Ma queste sono spesso cose che non si dicono. A ribellarsi sono stati Julia Heilmann e Thomas Lindemann, lei ex direttrice di una libreria d’arte, lui giornalista, autori di La cacca dei bambini (Sperling & Kupfer): perché ovviamente il pannolino da cambiare è l’ultimo dei problemi e nella realtà gli stereotipi sui genitori funzionano poco. Forse vanno bene, certe illusioni, per la supermamma della City che fa curare i figli al marito mentre lei si dedica alla carriera; forse per Amy Chua, la capofila delle «mamme tigre», severe e perfezioniste.
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