Ecco cosa resta di An: solo la guerra sulle case

Finisce davanti al giudice la disputa sul patrimonio immobiliare. Fli accusa, ma dimentica la casa di Montecarlo. Fini voleva nominare dei liquidatori, ma il tribunale lo ha fermato. E Bocchino al "Roma" non riconosce i danni al suo ex direttore

Ecco cosa resta di An: solo la guerra sulle case

Gian Marco Chiocci
Patricia Tagliaferri

La casa di Montecarlo svenduta a società off shore e in uso al cognato di Gianfranco Fini grida ancora vendetta. Ma è sulla ricca gestione dell’intero patrimonio di Alleanza nazionale che gli ex camerati hanno deciso di farsi la guerra: quel che di poco resta del Fli di qua, e di là il grosso delle truppe ex missine confluito nel Pdl. Una contesa fratricida combattuta in tribunale attraverso una «causa di giurisdizione volontaria», strumento previsto dal codice per quelle beghe in cui entrambe le parti auspicano, almeno in prima battuta, il raggiungimento di un accordo. Accordo che però, in questo caso, non è stato raggiunto. O almeno non del tutto. Tant’è che a settembre le parti si ritroveranno davanti al giudice naturale che dovrà decidere a chi spetta, e con quali modalità, provvedere alla liquidazione di tutti i beni del partito, compresi i resti dell’eredità della contessa Anna Maria Colleoni.

La storia del contenzioso è riassunta nel dispositivo del presidente del tribunale di Roma, Paolo Di Fiore, che personalmente s’è preso la briga di analizzare le carte dichiarando, per l’intanto, inammissibile il ricorso sull’istituzione di uno o più «liquidatori» scritto dal senatore Giuseppe Consolo (legale di Fini) eppoi presentato da due finiani doc: l’onorevole Antonio Buonfiglio e Rita Marino, storica segretaria di Gianfranco, salita alla ribalta delle cronache giudiziarie con l’inchiesta della procura di Roma sull’appartamento abitato da Giancarlo Tulliani nel Principato di Monaco.

Il presidente del tribunale, formalmente, si è adeguato alla presentazione di un «reclamo» sulla necessità di nominare liquidatori diversi da quelli stabiliti nell’ultimo congresso, «reclamo» che si discuterà il prossimo 22 settembre, ultima fermata utile per dirimere bonariamente la questione prima dell’eventuale approdo al processo civile. Nel quale verranno esaminate le «lamentele» dei ricorrenti finiani che sollevano censure all’operato dei due Comitati (il Comitato di Gestione e il Comitato di Garanzia) concepiti appositamente nell’ultimo congresso nell’attesa della costituzione di una Fondazione (prevista nel 2011) dove far confluire il tesoro di famiglia.
Prima di sciogliere la riserva e stoppare le intenzioni dei finiani, il presidente ripercorre la genesi della guerra dei Roses di via della Scrofa.

E ricorda come il ricorso di Marino e Buonfiglio parta dalle decisioni approvate dal congresso del 22 marzo 2009 laddove, in attesa della fondazione, si conferivano i poteri a un comitato di gestione e a un comitato di garanti «quale organo preposto al mero esercizio di poteri di indirizzo e vigilanza». Secondo la Marino e Buonfiglio, però, il comitato dei garanti avrebbe fatto di testa sua procedendo a una progressiva limitazione dei poteri del comitato di gestione intervenendo sulla composizione del comitato stesso, modificando la governance delle due società proprietarie del patrimonio immobiliare di An con la sostituzione di Donato Lamorte, negando alla società che gestiva «il Secolo» il prestito infruttifero di un milione di euro, concedendo contributi a organizzazioni giovani del Pdl e finanziamenti al medesimo partito.

A tal proposito, leggendo le pagine del «ricorso finiano» dedicate alla lettura dei verbali del comitato dei garanti, rispetto allo scempio di Montecarlo fa una certa tenerezza leggere le rimostranze del Fli circa la scoperta «che 28 immobili di proprietà di An sono in uso gratuito al Pdl e alle sue organizzazioni giovanili che si orientano a concederli in locazione al Pdl a un prezzo del 30 per cento inferiore a quello di mercato». La decisione di trascinare la contesa davanti a un giudice terzo nasce proprio perché, a detta di Buonfiglio e Marino, il comitato non si sarebbe attenuto a fare il minimo garantito, e cioè a limitarsi a «preservare integro il patrimonio attraverso il compimento di atti conservativi o, al più, migliorativi». E sul presupposto che che i membri del comitato sarebbero venuti meno ai loro doveri di esecutori, liquidatori e istitutori di una fondazione, chiedevano al presidente del tribunale di provvedere alla nomina di commissari liquidatori.

La controparte, col senatore Mugnai in testa, ha ribattuto elencando tutta una serie di motivazioni convergenti con l’inammissibilità e improponibilità e il rigetto della domanda dei finiani, «avendo, il comitato, operato nel pieno rispetto di poteri e delle prerogative attribuite loro dal Congresso, e quindi in ossequi

e in piena conformità al mandato cui era stato investito». Il presidente del tribunale, sollecitato a decidere dai ricorrenti finiani, ha risposto picche: niente liquidatori. Appuntamento a settembre. Tutti contro tutti.

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