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Ecco come De Benedetti prova a spingere il Professore sul Colle

L'Ingegnere con Repubblica vede in Prodi l’uomo ideale per assecondare il potere delle toghe: un colpo mortale alla modernizzazione istituzionale del Paese

Ecco come De Benedetti 
prova a spingere  
il Professore sul Colle

Diversi fattori provocano scosse nel quadro politico: a partire dai recenti risultati elettorali che hanno assai turbato i leghisti, alle ventate di crisi, alle guerre di influenza tedesca e francese sulla finanza italiana. Pesano naturalmente le indagini giudiziarie per la selezione mirata dei loro obiettivi e per l’uso mediatico inaccettabile delle intercettazioni. Però anche queste inchieste intervengono su uno spartito che ha al suo centro una questione: chi andrà al Quirinale nel 2013. Considerando la storia della Seconda repubblica si noterà come l’elezione del presidente della Repubblica sia l’elemento su cui si concentra la cura degli ambienti internazionali e italiani, a partire dai settori maggioritari della magistratura, che non vogliono la modernizzazione istituzionale del Paese. È sul Colle che regge la difesa di equilibri conservatori che perpetuano la nostra crisi nazionale. E arrivare a due anni dalla scadenza con Berlusconi ancora in sella (sia pure fiaccato dalle inchieste) e con una prospettiva di scelta del «presidente» non perfettamente governabile dai vari poteri «immobili» suscita preoccupazioni.

Le recenti elezioni, poi, e il referendum - per non parlare del Lodo Mondadori - hanno ridato vitalità a Carlo De Benedetti che prima si apprestava ad allearsi con Massimo D’Alema e Pier Ferdinando Casini per un ritorno al proporzionale e per scelte quirinalizie di compromesso. Ora invece cavalca le spinte sociali in atto come occasione per portare alla presidenza un candidato radicale come Romano Prodi che potrebbe assecondare fino in fondo il potere giudiziario coordinandolo a un assetto oligarchico di quegli ambienti finanziari che sorreggono il professore bolognese.

Alcuni incontri «debenedettiani» con Mario Monti (che insieme si agita per soluzioni extraparlamentari e spiega come la causa della crisi italiana sia la destabilizzazione della politica) completerebbero con una copertura «tecnocratica» di governo l’operazione Prodi. C’è chi addirittura interpreta l’improvviso accanirsi giudiziario contro dalemiani di tutta Italia come un elemento necessario di questa manovra che colpisce uno dei centri (pur ormai mediocri) di resistenza della politica.

Parallela a questa manovra c’è l’azione del Corriere della Sera, che pur influenzata da ambienti omogenei a quelli debenedettiani, risponde a un equilibrio più ampio che preferirebbe soluzioni meno di rottura del sistema (o una riconferma di Giorgio Napolitano, che appare largamente improbabile, o l’emergere di un’analoga figura di moderazione come Giuliano Amato).

È tenendo conto di questo scenario che si comprendono meglio certi balletti per esempio su Roberto Maroni che tramontata la centralità di Giulio Tremonti, diventa l’uomo che può servire a tenere rapporti con un centrodestra più docile (oppure a romperli come vogliono i «debenedettiani»). Un certo flirt con settori del centrodestra che cercano una sponda giustizialista diventa così il modo del Corriere per dare spazio a Maroni nell’ottica di una soluzione moderata per il Quirinale. La scelta della Repubblica invece di intervistare una personalità ormai squalificata come Gianfranco Fini per lanciare il ministro degli Interni come premier di un governo di unità nazionale è invece il modo per bruciarlo. E concentrarsi su esiti di rottura.

Non sarà semplice per il centrodestra evitare esiti o di conservazione o ancor peggio di rottura.

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