Ecco i tre errori che il Pdl dovrà evitare

È stato giustamente osservato che l’elettorato francese ha punito il presidente Sarkozy per non aver realizzato le riforme promesse e che questa lezione deve essere assimilata dal centrodestra italiano, che non deve deludere il proprio elettorato lasciando passare altri tre anni senza realizzare le riforme promesse. Tuttavia, c’è anche un’altra ragione per cui Sarkozy ha perso le elezioni - ed è il caso di dire che sono state perse, più che vinte dalla sinistra, poiché è stata la massiccia astensione a determinare il risultato. La ragione è che Sarkozy - non è chiaro se per la tradizionale soggezione culturale della destra o per influssi familiari, o per entrambi i motivi - ha iniziato a rovescio, aprendo le porte del potere alla sinistra.
Di fatto, in molti settori strategici egli si è messo nelle mani di personaggi come Mitterrand, Kouchner, Attali, ha ripescato la tradizionale politica mitterrandiana di protezione dei cosiddetti «rifugiati politici», ha trascurato la promessa di prendere di petto i guasti del comunitarismo, e solo alla fine ha cercato di mettere una toppa malandata con un provvedimento di divieto del burqa, peraltro non arrivato in porto. Uno dei cavalli di battaglia di Sarkozy nella campagna elettorale che lo portò alla presidenza fu il proposito di ridare dignità culturale alla scuola. Al contrario, egli non ha fatto nulla continuando a lasciare tutto in mano ai campioni del pedagogismo «progressista» del «socle commun», ovvero di quella pasticciata idea di distruggere l’assetto disciplinare a favore di un fumoso «zoccolo comune» dell’istruzione. Di che stupirsi se il suo elettorato è rimasto a casa deluso? In tal modo, Sarkozy è riuscito a replicare l’exploit della sinistra di gonfiare di nuovo di voti la destra neofascista di Le Pen.
Questa è la lezione che dovrebbe meditare il centrodestra, il quale ha commesso errori analoghi nei primi due anni di governo. Non si può dimenticare l’appello iniziale rivolto all’intellettualità di sinistra a impegnarsi in un’opera comune, dettato dal solito duplice errore: non dare importanza alla cultura considerandola come un orpello, ritenere che essa sia un’esclusiva della sinistra e quindi mettersi nelle mani dei soliti intellettuali «progressisti» nella speranza di ricevere un viatico e un aiuto. Il risultato è stato da un lato di ricevere secchi rifiuti, dall’altro di inzeppare istituzioni e ministeri di consulenti, dirigenti e consiglieri dell’opposizione i quali si sono rivelati molto attivi, anche nel remare contro. La vischiosità nel governare del centrodestra è in buona parte da ricondurre a questo grave errore originario. Ora, l’ultimo degli errori sarebbe quello non soltanto di non fare le riforme ma di accingersi ai tre anni restanti di governo con la persistente sfiducia nella possibilità di avere idee autonome e originali, che non siano quelle che vengono dal serbatoio culturale della sinistra, senza neppure rendersi conto che questo serbatoio è ormai praticamente vuoto.
Se si vuole sviluppare una riflessione costruttiva e pacata attorno alle posizioni assunte dal presidente della Camera Gianfranco Fini e della sua fondazione Farefuturo, è proprio questa la questione che va affrontata. Nessuno può mettere in discussione la legittimità, anzi la necessità, di aprire un dibattito nel centrodestra attorno alle sue prospettive future e ai suoi programmi, in senso ampio e culturalmente profondo, e senza alcuna preclusione di schieramento. In altri termini, se un’idea è buona la si prende in considerazione, da qualsiasi parte venga. Ma il riciclare affrettatamente idee stravecchie, che hanno dimostrato la loro inconsistenza e sono fallite sul piano pratico, è un errore che si traduce nella pura e semplice subalternità culturale.
Facciamo qualche esempio. Nessuno può seriamente negare che attorno al problema dell’immigrazione si debba sviluppare una riflessione che tenga conto del fallimento di una serie di modelli. Ma proporre una rifondazione dell’identità nazionale attorno all’idea del «multi» è quanto dire niente. Dico «multi» perché non è chiaro se si pensi alla multietnicità o al multiculturalismo. Nel primo caso, si dice una banalità, perché la società italiana è sempre stata multietnica, anche prima dei flussi migratori: neanche Mussolini ha osato negarlo.
Se si pensa al multiculturalismo, allora occorre fare i conti col fatto che tutte le sue versioni sono fallite miseramente. Esistono riflessioni attorno al modo di aggregare i nuovi cittadini attorno a un’idea di identità che non può non fondarsi su valori culturali, etici e giuridici ben definiti e che, nel caso di società come quelle europee, non possono prescindere da una tradizione storica. Non è qui il caso di approfondire un tema del genere, ma per l’appunto queste riflessioni esistono e non è una buona idea aggirarle con un recupero affrettato di un consunto buonismo «progressista» (che si è mostrato capace soltanto di produrre un’enorme sofferenza sociale), magari condensandolo in formule come quella del conferimento veloce della cittadinanza.
Un altro esempio è dato da un modo di affrontare le questioni etiche poste dagli sviluppi delle scienze biomediche che recupera in modo acritico una visione che si crede laica e che invece si riduce soltanto alla mera attenzione per l’ideale del raggiungimento della «felicità» e del «benessere» individuale. Da un lato si rischia di semplificare l’enorme complessità dei problemi bioetici contemporanei e di non percepire la sensibilità che si è creata attorno ad essi. D’altro lato, pare che non si veda che la visione di cui sopra non è altro che la riproposizione in termini individualistici di un costruttivismo sociale che, sotto una falsa veste libertaria, pretende di nuovo di prescrivere i comportamenti di vita ideali. Questo emerge chiaramente nelle forme che assume questo costruttivismo sul terreno educativo, dove tenta di sottrarre alla famiglia ogni ruolo e, anche qui sotto una falsa veste libertaria, mira a ricondurre tutte le funzioni educative e formative alla scuola e allo Stato. Come è possibile cadere tanto facilmente nella trappola di questo costruttivismo facendosi addirittura promotori dell’istituzione di materie scolastiche di «educazione ai sentimenti e all’affettività», che statalizzano quello che deve appartenere alla libertà delle famiglie e dei rapporti interpersonali liberamente costruiti? Si tratta oltretutto di visioni fallimentari che non meritano di ricevere boccate di ossigeno.
Va ribadito che su tutte queste cose si può e si deve discutere. Ma andare alla ricerca di tematiche capaci di marcare una diversità e un’originalità e, nella fretta di farlo, andarle a pescare nel serbatoio di ideologie progressiste esauste, è un triplice errore. In primo luogo, perché i legittimi autori di queste tematiche non rinunceranno a gestirle in proprio e si serviranno di chi nel centrodestra dichiara di condividerle come di un taxi. In secondo luogo, perché esse non attecchiranno nel centrodestra che sente il bisogno di trovare risposte di orientamento diverso anziché ricorrere a vecchi armamentari.

In terzo luogo, e soprattutto, perché la costruzione di una prospettiva di lungo periodo merita maggiore cura e attenzione. In conclusione, tutto ciò prospetta un fallimento sicuro e a priori, neppure a posteriori come nel caso francese.

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