Ecco come Leo ha ipnotizzato l’Inter

Ivan Cordoba ha detto che si erano scambiati la maglia dopo un Inter-Milan: «Lo faccio molto raramente, era la seconda volta che mi succedeva, la prima con Paolo Maldini». Magari gli aveva arrotato anche un po’ le caviglie, così, giusto per prendere confidenza in anticipo. Javier Zanetti ricorda quella cena finita alle cinque del mattino: «Stavo pensando a una fondazione che potesse aiutare la mia gente, Leo accettò il mio invito e mi diede tante idee e informazioni preziosissime. Siamo usciti dal ristorante che faceva l’alba. È successo dieci anni fa, adesso è qui e insieme faremo grandi cose». Situazione pericolosissima all’Inter, l’allenatore è un giovane compagno di giochi che all’improvviso riappare, sono saltati gli schemi un’altra volta, pazza Inter amala.
Questo non è stato scelto per le sue esperienze calcistiche, questo è stato scelto per la sua intelligenza e per il suo carattere, prende il calcio a modo suo, gira la frittata talmente veloce che non te ne accorgi: «Chi mi ha voluto all’Inter? Beh, è stato tutto così veloce e così affascinante che non voglio capire. Preferisco vivere».
Lo chiamano Leo. Non i tifosi ma i giocatori. Chi fa il gol corre da lui ad abbracciarlo, chi viene sostituito non batte il cinque ma si stringono, la Nord ha chiamato subito il suo nome all’esordio. Tutto pericolosissimo e unico, non si ricordano pari entusiasmi nel breve con altri alla prima di San Siro, se non ci fosse quel lato oscuro di tredici anni nel Milan... O magari sono stati proprio quelli, una ritorsione che i tifosi avevano dentro, una rivincita maggiore della conquista dei cinque trofei esposti sul prato del Meazza che Leonardo ha celebrato con delicatezza: «Al centro c’è l’Inter e il merito è di tutti quelli che mi hanno preceduto».
Anche di Rafa Benitez, uno che nessuno nello spogliatoio chiamava Rafa e che ora tutti i giocatori difendono senza ritegno, come se l’arrivo di Leonardo avesse neutralizzato anche quei cinque mesi vissuti in apnea: «Ma non si vince una coppa Intercontinentale se non c’è feeling con l’allenatore - ha detto Esteban Cambiasso -. Non è corretto dire che con Benitez c’erano problemi e invece adesso c’è un allenatore con cui andiamo d’accordo». L’ha detto El Cuchu, l’aveva fatto sapere anche la Nord con uno striscione, clima a largo respiro, è questa la grande novità e quanto sia il contributo di Leonardo in tutto questo è presto per dirlo. Però è coinciso sorprendentemente con il suo arrivo. Dice Thiago Motta, destinato comunque a riaversi nel breve, che con Leonardo non aveva mai parlato prima: «É brasiliano come me ma lo sto conoscendo solo in questi giorni, anche se l’ho sempre ammirato per quello che ha fatto per il calcio. Lui è arrivato qui con tanta intelligenza, avevamo bisogno di una serata così, noi siamo contenti per lui». Dai.
È vero che mettersi di traverso proprio con il capo non è un segno di grande furbizia, ma qui girava la voce che i ragazzi stessero per proporre al presidente l’autogestione, proprio così. Non era tanto colpa di Benitez, quanto una crisi di rigetto dopo l’espianto di Josè Mourinho e un nuovo trapianto, indesiderato. Leonardo sta funzionando meglio di una autogestione perché toglie alla squadra la responsabilità. Si parla della squadra campione del mondo, una ventina di nazionali, la stragrande maggioranza sui trenta, padri, perfino Andrea Ranocchia ha sentito il dovere di precisare subito che lui vorrebbe prima di tutto diventare loro amico.
Ivan Cordoba, uno che nello spogliatoio conta parecchio, ha detto che era importante battere il Napoli per far capire certe cose: «Leonardo parla molto, coinvolge tutti, e con tutti parla allo stesso modo, parla così con il magazziniere e con il presidente. Dà la possibilità di esprimere le proprie idee e questo ci piace. Dovevamo vincere la prima per fargli capire come la pensiamo e cosa vogliamo fare da qui alla fine del campionato. Vogliamo che anche lui come Mancini, Mourinho e Benitez, con noi si possa togliere delle soddisfazioni».
Come Josè, diverso da Josè, né meglio né peggio, diverso.

Tutto gli è filato via liscio, la fucilata di Thiago Motta è arrivata dopo tre minuti, nessuna provocazione, ignorati arbitro, guardalinee e quarto uomo, un cenno alla curva quasi di pietà quando gli ha chiesto di saltare se non era milanista. Questo tiene a bada anche il preside senza che il preside se ne accorga. Pericolosissimo e affascinante.

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