Antonio Lodetti
da Milano
Ortodosso nei principi religiosi ed ecumenico nei suoni. Così il giovane ebreo newyorchese dadozione Matisyahu è diventato una star della musica popolare. Laspetto severo del rabbino non gli impedisce di scatenarsi interpretando un colorito e un po ruffiano miscuglio di inni ebraici, cadenze reggae e hip hop tagliate da sapienti melodie pop che lo hanno trasformato in un fenomeno. Così lartista sbarca stasera al Rainbow di Milano per il suo unico concerto italiano. Il suo secondo album, Youth, uscito due mesi fa, ha subito sfondato nelle classifiche americane e in quelle di I Tunes e singoli come King Without a Crown sono ormai popolarissimi anche al nostro pubblico radiofonico. Melodie «profane» su testi che parlano di pace e di Dio affratellando ebrei e palestinesi, bianchi e neri, rapper e rockettari. E il mistero è che piace a tutti. Il suo manager Aaron Bisman racconta: «Riceviamo centinaia di email che dicono: Matisyahu canta un genere che non mi piace ma parla davvero allanima».
Nei suoi brani realisti, colloquiali, dai ritmi taglienti e propulsivi, occhieggia lanima della sua cultura «hassidica» accanto a quella di Bob Marley, quella degli antichi cantori Hazzan e dei primi rapper, quella del rabbino Shlomo Carlebach e di Buju Banton, tanto che in Usa hanno definito il suo stile «hasidic reggae» o «hasidic rap». «Voglio che ogni nota - dice Matisyahu - tocchi le persone e le spinga a pensare. La musica è la voce dellanima, e può unire i popoli in guerra». Impegnato sì, illuminato forse, ma non prendetelo per un bigotto (anche se, come impone la sua fede, non suonerebbe il venerdì notte neppure sotto tortura). Da ragazzino era un ribelle contro tutto e contro tutti, persino contro la sua stessa religione, finché «ho coniugato il mio essere ebreo con il reggae, la tradizione con la modernità». Uno strano matrimonio che lo ha portato sui palcoscenici dei club anziché in sinagoga. «In questo modo molta più gente ascolta le mie preghiere».
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