Roma - Nero, carismatico, praticamente un pezzo d’ebano nella torre d’avorio della sua bravura, Morgan Freeman ieri ha mandato in bambola il classico cameriere romano, che gli portava via la tazza di caffè proprio mentre lui (detto «God», dopo Una settimana da Dio) se la stava centellinando tra una domanda e l’altra. Un’occhiata delle sue celebri pupille del Tennessee, dove l’attore afroamericano nacque nel 1937 (a Memphis, la città di Elvis), ed è subito richiamo all’ordine (o a un po’ d’attenzione). Non s’intitola forse Invictus, mai vinto, il drammatico film di Clint Eastwood (dal 26 nelle sale), dove questa leggenda dello schermo (cinque nomination all’Oscar e una statuetta con Million Dollar Baby, nel 2004) incarna Nelson Mandela, leader politico tra i più notevoli della storia recente? «Per me Mandela è un’icona che riassume le qualità migliori: compassione, carità, carisma. Ma poco importa cosa sia Mandela per me. Importa cosa sia lui per gli altri», esordisce il protagonista, alla sua terza prova con l’altro grande vecchio del cinema Usa, quel Clint Eastwood che più avanza nell’età e meglio dirige (ci siamo appena ripresi dalla suggestione emotiva di Gran Torino ed ecco che arriva un’altra doppietta Callaghan, all’insegna di sport e libertà: tandem imbattibile). «Clint non è il tipo al quale fai uno schiocco, sul set, per richiamare la sua attenzione. Inoltre, io ho un tale livello di arroganza... Insieme, collaboriamo bene e parliamo poco», spiega Freeman, che ha la mano sinistra ancora dentro a un guanto di plastica (è mancino), dopo il brutto incidente d’un paio d’anni fa, quando la sua Nissan fece crash, in una strada buia del Mississippi e, accanto, gli sedeva una certa Demaris Meyer. Oltre alle donne (due mogli e un prossimo matrimonio con la figlia adottiva della figlia della seconda moglie Myrna Calley-Lee: tecnicamente non è incesto, ma la storia iniziò quando E’Dena Hines, futura Mrs. Freeman, aveva solo 17 anni), Morgan ama i ruoli forti. Con Invictus (tratto dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin, Sperling&Kupfer) arriva sui nostri schermi un episodio preciso della storia del Sudafrica post-apartheid. Quando Nelson Mandela, dopo 24 anni di carcere e l’elezione a presidente della sua tormentata nazione, affidò alla nazionale di rugby formata da bianchi (gli Springboks) la possibilità di unificare un Paese scisso dall’odio razziale. Quarantadue milioni di sudafricani, accomunati dalla stessa passione, formarono un solo corpo intorno alla coppa del mondo del 1995.
«Ho conosciuto Mandela nel 1997. È un uomo molto importante e m’intimidiva. È gentile e generoso, sì, ma il modo in cui ti guarda mette soggezione. Non ho mai incontrato il Papa, ma non credo che mi intimidirebbe allo stesso modo», svela l’attore, che per impersonare «Mandiba» ha accumulato «letture ed emozioni, per poterle sparare come cartucce sullo schermo». E Dio solo sa se, adesso, abbiamo bisogno di questo tipo di cartucce, dopo gli spari contro i negri, a Rosarno, e gli insulti razzisti, in campo, contro Balotelli... Data la perfetta coincidenza Mandela/Freeman, Morgan corre per un altro Oscar (come miglior attore), ancora sotto il segno di Clint. «È un vantaggio e uno svantaggio: Eastwood è un gran professionista. Ma fa sempre piacere ricevere una pacca sulle spalle da chi si ritiene sia esperto. Per il resto, non mi sento vecchio per niente», ride Morgan, che qui se la batte con Matt Damon, vero torello afrikaaner che fa François Pienaar, capitano della Nazionale sudafricana (in corsa per l’Oscar anche lui, che prima di Bourne Identity si sentiva, parole sue, «un attore finito»).
«Pienaar l’ho detestato: così biondo, con quegli occhi azzurri, così giovane, poi!», sghignazza Freeman, subito serio quando parla di Obama. «Vorrei tanto poter dire che ce la farà. Spendiamo milioni di dollari per dichiarare guerra alla droga: non possiamo permettercelo. La riforma sanitaria, invece, sì che possiamo permettercela».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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