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«Ecco perché dico no al protocollo di Kyoto»

Secondo «l’ambientalista scettico» Bjørn Lomborg, il surriscaldamento del globo è grave, ma non è la priorità

Il riscaldamento globale è ormai diventato una delle questioni principali della nostra epoca. Molti governi e numerosi attivisti impegnati nell’ecologia sostengono che l’azione contro l’innalzamento della temperatura deve diventare la nostra priorità fondamentale. Negoziare un secondo trattato a seguito del Protocollo di Kyoto implica - ci dicono - che dobbiamo attuare una diminuzione ancora più drastica delle emissioni di gas serra che provocano il surriscaldamento della Terra. Riguardo alle nostre priorità, però, si sbagliano; e anche il rimedio invocato si rivela inefficace.
Il risultato di tutto ciò è che rischiamo di perdere di vista innanzitutto i reali doveri globali fondamentali, così come stiamo mancando l'approccio migliore - quello a lungo termine - nei confronti dell'aumento della temperatura. Senza dubbio, il riscaldamento del nostro pianeta è un fatto, non si può negare, ed è causato dall'innalzamento del livello di anidride carbonica nell'atmosfera. Il problema è che perfino i migliori modelli climatici oggi a disposizione mostrano che l'azione «immediata» fa ben poco. Il Protocollo di Kyoto punta a tagliare le emissioni di anidride carbonica nei Paesi industrializzati del 30 per cento rispetto al livello in cui arriverebbero a trovarsi nel 2010, e del 50 per cento nel 2050.
Eppure, anche se ogni Paese (inclusi gli Stati Uniti) si adeguasse alle regole del Protocollo, aderendovi tenacemente per un secolo, il risultato sarebbe pressoché nullo, poiché così facendo il surriscaldamento verrebbe solo posticipato di sei anni. Alla stessa stregua, i modelli economici mettono in luce l'enormità dei costi del rispetto del Protocollo: almeno 150 miliardi di dollari all'anno. In confronto, gli Usa stimano che con metà di quella cifra si potrebbero risolvere in modo permanente i maggiori problemi del pianeta: verrebbero garantite acqua potabile, assistenza sanitaria di base, buone condizioni igieniche e istruzione per ogni singolo abitante del mondo.
Il surriscaldamento globale danneggerà principalmente i Paesi in via di sviluppo, perché sono più poveri e quindi più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici. Nonostante ciò, a partire dai progetti delle Nazioni Unite anche i più pessimisti prevedono che nel 2100 una persona di classe media nei Paesi in via di sviluppo sarà più ricca di quanto non lo sia ora una persona di classe media dei Paesi sviluppati.
Perciò, l'azione immediata contro il riscaldamento globale risulta fondamentalmente un modo costoso di fare molto poco per pochi ricchi in un lontano futuro. Occorre allora chiedersi se davvero debba essere questa la nostra priorità.
Naturalmente, in un mondo perfetto non sarebbe necessario stabilire delle priorità. Dovremmo poter fare bene ogni cosa. Dovremmo vincere la guerra contro la fame nel mondo, risolvere i conflitti armati, debellare le malattie contagiose, fornire ovunque acqua potabile, diffondere il diritto all'istruzione e rallentare il cambiamento climatico globale. Ma non possiamo. Allora occorre farsi una domanda più difficile: se non possiamo fare tutto, cosa dobbiamo fare per prima cosa?
Alcuni dei maggiori economisti mondiali - inclusi quattro premi Nobel - hanno risposto a questa domanda nel corso del «Copenhagen Consensus» del 2004, stendendo una lista secondo priorità delle linee principali per lo sviluppo del mondo. Sono giunti alla conclusione che la lotta all'Aids e alla fame nel mondo, il libero scambio e il problema della malaria sono in cima alla lista di priorità per il pianeta. E che quindi è in questi campi che dovremmo fare del nostro meglio con i fondi di cui disponiamo. Di contro, le proposte di azione per il cambiamento climatico globale sono state classificate dagli esperti in fondo alla lista delle priorità del mondo; anzi, la commissione ha definito questi azzardi - incluso il Protocollo di Kyoto - «progetti negativi», per il semplice motivo che sono più costosi che efficaci.
Il «Copenhagen Consensus» ci ha ridato grande speranza, perché ha mostrato che ci sono realmente molte cose buone da fare. Con 27 miliardi di dollari possiamo operare una efficace prevenzione all'Hiv su circa 28 milioni di persone. Con 12 miliardi di dollari possiamo ridurre i casi di malaria di circa un miliardo all'anno. Invece di aiutare le persone più ricche in un futuro lontano - e quindi in modo del tutto inefficace nel presente - possiamo fare una gran quantità di bene adesso.
Questo non vuol dire trascurare la necessità di affrontare i cambiamenti climatici. Ma un approccio «alla Kyoto» punterebbe a tagli immediati troppo costosi e troppo poco efficaci. Occorre invece investire le forze nella produzione di energia senza emissioni di anidride carbonica, in grado di procurare un bene di cui possano godere anche e soprattutto i nostri discendenti. Il vero risparmio è questo, ultimamente molto più efficace nell'affronto del problema del surriscaldamento del pianeta. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno iniziato a sostenere questa posizione.
Oltretutto, i tagli immediati «in stile Kyoto» - che come già detto risultano estremamente dispendiosi e poco efficaci - costringono molte nazioni ad abbandonare l'intero programma. Piuttosto, si dovrebbe promuovere la firma di un trattato che vincoli tutti gli Stati a spendere, per esempio, lo 0,1% del prodotto interno lordo nella ricerca e sviluppo di tecnologia per la produzione di energia senza emissione di anidride carbonica. Questa proposta è cinque volte più economica del Protocollo di Kyoto, e quindi molte volte più di un Kyoto II. Ogni Stato dovrebbe esserne coinvolto, naturalmente con le opportune distinzioni: le nazioni più ricche potrebbero impegnarsi nel pagamento della cifra più grossa, e quelle più povere potrebbero essere introdotte gradualmente nel processo.
Ogni singola nazione avrebbe così la possibilità di focalizzarsi sulla visione futura del proprio bisogno di energia, sia che significhi concentrarsi sulle energie rinnovabili, energia nucleare, fusione, approvvigionamento di carbone, o cercare nuove e più «esotiche» opportunità. Un tale sforzo collettivo, di ricerca globale, può avere inoltre uno smisurato «effetto allargato» di innovazione anche in altri campi. A lungo andare, infatti, azioni di questo tipo possono produrre un impatto molto più vasto di quello dei programmi del Protocollo di Kyoto.
In un mondo come il nostro, con risorse limitate, in cui possiamo affrontare solo alcuni dei cambiamenti che ci troviamo davanti preoccupandoci più per alcuni temi e meno per altri, abbiamo il dovere morale di fare del bene, quanto più possibile, con le cifre che abbiamo a disposizione: occorre quindi concentrare le nostre risorse dove possiamo realizzare meglio e di più.
In quest'ottica, il riscaldamento globale non appare più la priorità.

Piuttosto che investire centinaia di miliardi di dollari a breve termine in tagli inefficaci alle emissioni di CO2 dovremmo investire decine di miliardi in ricerca per lasciare ai nostri figli e nipoti energia pulita e a basso costo. (Traduzione di Chiara Sordi)

*Direttore del «Copenhagen Consensus Center»;
Professore Associato
alla Copenhagen Business School

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