«Certo che sono sorpreso. Non me l’aspettavo. Vincere è un film di un anno e mezzo fa. Non abbiamo fatto una particolare campagna promozionale. Ci ha pensato la produzione, ha trovato un distributore americano, io me ne sono disinteressato. Sì, mi dicevano che l’accoglienza era positiva. Che la media dei giudizi della critica era alta. Però...». Smaltite le feste, nella sua casa di Roma Marco Bellocchio sta riflettendo sul suo prossimo film che potrebbe riguardare Tangentopoli. Ma la notizia del «tifo» dei critici del New York Times che, con procedura particolarmente insolita, spingono per la candidatura all’Oscar dell’opera in cui ha raccontato la vicenda di Ida Dalser, l’amante che diede un figlio a Mussolini (Benito Albino) e che finì i suoi giorni in un manicomio, è un gran buon viatico per il 2011. Giovanna Mezzogiorno è già stata nominata «best actress» dai critici americani mentre si saprà solo il 25 gennaio se il film, uscito negli Stati Uniti nel 2010, concorrerà per la conquista della prestigiosa statuetta nella categoria del miglior film assoluto. «Ma no, meglio essere prudenti. Per l’Oscar siamo in zona Cesarini», smorza l’entusiasmo Bellocchio, come a far intendere che l’apprezzamento proveniente da oltreoceano è già in sé una soddisfazione. «Per chi fa un lavoro impicciato e mescolato come il mio, una notizia così è uno stimolo ad andare avanti per la nostra strada».
Ma secondo lei, oltre agli attori, che cosa è piaciuto di più agli americani? La storia o la forma del racconto?
«Entrambe le cose, credo: la bravura degli interpreti e la qualità intrinseca del film. Non dimentichiamo che Mussolini è stato fino a un certo punto del regime un personaggio molto apprezzato e ammirato dalla colonia di italiani in America. Poi purtroppo sono arrivate le leggi razziali e la guerra... Però tra i personaggi italiani forse è il più conosciuto all’estero. Probabilmente è piaciuto anche lo stile narrativo. In tutta sincerità, va detto che il film è stato proiettato soprattutto nelle sale d’essai, non esattamente nei circuiti popolari».
Del cinema italiano gli americani sembrano apprezzare soprattutto il periodo della Seconda Guerra mondiale come dimostrano gli Oscar a Mediterraneo e La vita è bella. Ora si parla di Vincere...
«Questo forse dipende dall’età dei votanti dell’Academy. Sento dire che sono persone anziane, un po’ tradizionaliste. È plausibile che amino il cinema della memoria, della storia, anche se Vincere è tutt’altro che un film nostalgico. È un cinema del presente che parla del passato. Com’era anche Nuovo Cinema Paradiso».
Che cosa pensa dell’attacco di Luca Guadagnino a La prima cosa bella di Paolo Virzì, nostro candidato ufficiale tra i film stranieri?
«C’è una giuria nella quale contano i rapporti di forza. Questa giuria dovrebbe intuire quale opera italiana abbia maggiori chance per puntare all’Oscar. Il film di Guadagnino aveva già ottenuto buoni riscontri. Spesso però prevalgono i gusti dei giurati e la legge del più forte. L’anno scorso, tra Baarìa e Vincere fu scelto Baarìa prodotto da Medusa. Con questo non ho nulla da dire sul film di Virzì, al quale auguro di ottenere il massimo. Tuttavia, la mia esperienza dell’anno scorso è stata questa».
Dunque la nomination della critica americana è una specie di rivincita...
«In un certo senso. Sono anche felice per i riconoscimenti meritati da Giovanna Mezzogiorno. Ma sa, uno dei vantaggi dell’età è anche un certo distacco. Se avessi vent’anni vivrei tutto con maggior spirito di rivalsa».
A proposito di polemiche, il movimento «Tutti a casa» non è troppo ideologizzato?
«Una dose di ideologia forse è rimasta come reperto antico. Però si è attenuata. Ma non dobbiamo dimenticare il contesto in cui viviamo. Anche il cinema subisce i processi della globalizzazione. Si spostano le produzioni all’estero e i nostri lavoratori si sentono abbandonati. In una situazione di smarrimento e di disoccupazione il movimento “Tutti a casa” è affine a quello degli studenti che salgono sui tetti. Poi c’è un gruppo di professionisti che per la loro storia hanno più facilità a trovare un contratto, a trovare un produttore».
Che cosa pensa del fatto che mentre calano i fondi del Fus, crescono gli incassi al cinema italiano?
«Questo bisognerebbe chiederlo agli studiosi, ai sociologici. Forse è la domanda che è diversa. In epoche di crisi e di difficoltà, la gente vuol dimenticare, cerca di evadere, di divertirsi. E il cinema è una via d’uscita sicura».
È la ragione del successo di commedie come «Benvenuti al sud» e «Che bella giornata»...
«Assolutamente. Questa non è la stagione della commedia provocatoria, cattiva, contro il potere. Ma di film concilianti, capaci di mitigare i contrasti. Tuttavia, chi fa cinema d'autore sbaglierebbe a interrompere il proprio percorso».
Lei continua la sua indagine sull’Italia del ’900. Ha raccontato il '68, il terrorismo con «Buongiorno, notte», poi un episodio oscuro dell'epoca di Mussolini. Che ne è del progetto su Craxi e Tangentopoli?
«Un regista non è un giornalista né uno scrittore. Se parto dalla realtà tendo un po’ a stravolgerla. Come uno sportivo anche un regista deve tenersi in esercizio: incontrare gli attori, studiare le riprese, fare i film.
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