Fu la seconda strettoia per il giovane magistrato e ancora una volta la schivò in modo rocambolesco. Antonio Di Pietro si salvò con abilità e fortuna da una bocciatura che gli avrebbe allungato la gavetta e sporcato limmagine. Invece trovò il modo di scavalcare un ostacolo che sembrava insormontabile. Proprio comera successo al concorso per lingresso nella professione, quando il presidente di commissione Corrado Carnevale si era lasciato impietosire dal suo curriculum di emigrante e gli aveva attribuito la sufficienza, la più stiracchiata delle promozioni. La carriera di Antonio Di Pietro restò impigliata anche nelle maglie del Consiglio giudiziario di Brescia che nel 1984 si era trovato a decidere sulla sua nomina a magistrato di tribunale. Il periodo del tirocinio, ripartito fra Milano e Bergamo, era finito e il Consiglio doveva formalizzare il suo passaggio.
A Bergamo il sostituto procuratore Antonio Di Pietro si muove sopra le righe, interpretando la funzione di Pm in modo del tutto personale: fa quel che avrebbe dovuto fare la polizia giudiziaria, intrattiene rapporti diretti con gli informatori, insomma non distingue la figura del magistrato da quella del poliziotto e continua a comportarsi come fosse un agente di polizia, il corpo di cui aveva fatto parte fino al 1981.
Secondo Filippo Facci, autore della biografia Di Pietro la storia vera, girava con la pistola infilata nei jeans e in occasione di una rapina si precipitò in strada, bruciando sul tempo la volante e bloccando il malvivente. Lo chiamavano John Wayne, ma il procuratore di Bergamo Giuseppe Cannizzo al dunque stende una relazione che avrebbe ammazzato un cavallo: «Dopo un avvio abbastanza soddisfacente che sembrava confermare tutte le rilevanti doti di impegno e di operosità e una conseguente buona affidabilità, il dottor Di Pietro non dava viceversa sempre prova di adeguata professionalità». Di più: «Nelluso concreto delle funzioni giudiziarie, nonostante i ripetuti avvertimenti e suggerimenti dello scrivente e dei colleghi di maggior esperienza, assumendo atteggiamenti quali la spiccata tendenza ad imporsi e sostituirsi alla polizia giudiziaria e in particolare la disponibilità a trattare direttamente con i confidenti, il metodo eccessivamente inquisitorio nella conduzione delle indagini, i protagonismi non sempre corretti ne determinavano una situazione di grave disagio nei rapporti interni sia con i colleghi, sia in quelli esterni e in particolare con la polizia giudiziaria e il foro». L11 gennaio 1984 la relazione parte per la Corte dappello di Brescia, competente per i magistrati di Bergamo.
E il Consiglio giudiziario, guidato dal presidente della Corte Alfonso Squarotti, segue a ruota con una pronuncia durissima: «Dallesame degli atti relativi ai fatti oggetto della relazione, da questo consiglio acquisiti, si ritiene debbano, effettivamente, farsi discendere fondati dubbi circa lequilibrio, la diligenza, la riservatezza, lo scrupolo nello svolgimento del lavoro e ladeguata preparazione professionale, del magistrato oggetto di valutazione».
Un quadretto francamente imbarazzante e umiliante. Di Pietro viene affondato sotto giudizi che assomigliano a rasoiate. E a completare il cahier de doleance, cè anche la vicenda poco edificante di Fusto Tombini, un imprenditore arrestato per una truffa che non ha commesso, dimenticato in cella senza essere interrogato e infine scarcerato per decorrenza dei termini. «In ordine agli episodi che diedero origine alla denuncia penale a suo carico da parte di Tombini Fausto - si legge nella durissima stroncatura del Consiglio giudiziario - lo stesso Pm che ne richiese larchiviazione non potè fare a meno di sollevare la scarsa correttezza... se - dopo aver suggerito il fermo di Pg di detto denunciante - lascerà che lo stesso sia scarcerato per decorrenza dei termini di rito non soltanto senza aver emesso un formale provvedimento, ma senza neppure aver provveduto al suo interrogatorio». Insomma, un disastro.
Così il verbale del Consiglio giudiziario si chiude con una bocciatura impietosa, perché Antonio Di Pietro «non è in grado di dare tutti quegli affidamenti che vengono richiesti a un magistrato». È il 2 ottobre 1984 ma il giovane sostituto procuratore non si perde danimo.
Ricorre contro la decisione al Consiglio superiore della magistratura e contemporaneamente chiede di essere trasferito. È una mossa geniale che viene letta come un atto di contrizione. Le accuse si volatilizzano, Cannizzo diventa morbido, molto più morbido, il clima di ostilità si rasserena. E poco ci manca che il Csm gli stenda la passatoia rossa. Conclusione: il 5 marzo 1985 il Consiglio superiore della magistratura gli dà lok con 23 voti e un astenuto. Cannizzo fa la giravolta con i colleghi bresciani: «Di Pietro ha da tempo radicalmente mutato atteggiamento...
Tanto, Di Pietro è già in «fuga», sta per lasciare Bergamo, ha ormai preparato le valigie per Milano. Dove, di lì a sette anni, darà il via a Mani pulite.
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