Alessandro Massobrio
Una tempestosa avventura umana che si sarebbe dovuta concludere - se le cose della vita rispondessero ad una sorta di simmetria logica o in qualche modo consequenziale - sulla gradinata nord, tra lo sventolare delle bandiere rossoblu, oppure ai margini del campo da gioco, in mezzo ad arbitro e guardalinee ed al fianco di qualche giocatore inviato anzi tempo negli spogliatoi.
Invece, Franco Scoglio, il Professore di tante battaglie, lo stratega di tante disperate rimonte, il dialettico di tante furibonde zuffe giornalistiche, ha lasciato questa valle di lacrime nella lucida levigatezza di uno studio televisivo. In quel clima un po' anonimo ed un po' asettico che contraddistingue certi programmi, ripresi dall'occhio indiscreto delle telecamere.
E meno male che le ultime parole di Scoglio, prima di avvertire che il suo vecchio cuore stava comportandosi ad minchiam - per usare un'espressione da lui stesso coniata, in un coloritissimo latino maccheronico - sono state polemicamente rivolte all'attuale presidente della sua ex squadra, quell'Enrico Preziosi, che si sarebbe reso conto solo più tardi come anche lui, con quella polemica, fosse entrato, magari in punta di piedi all'interno di un mito che difficilmente la Genova del grifone vorrà cancellare dal suo immaginario collettivo.
E il perché lo spiega a chiare lettere un giornalista del valore di Gessi Adamoli, in un libro denso di colore e di calore umano. Perché Scoglio, a cominciare dal nome, era e non poteva essere altro che l'allenatore di una squadra di mare. Una squadra ribollente ed aggressiva, ombrosa ma anche appassionata, come lo sono a Genova certe giornate di tramontana o di libeccio. Che aggrediscono la biancheria appesa alle ardesie dei vicoli con una furia e una violenza da baccanti o da pirati.
E pirata questo pirotecnico allenatore siciliano, che aveva eletto Genova a sua patria di adozione (con qualche raro sconfinamento sulle dune del nord Africa) lo era davvero. A cominciare dai metodi di allenamento anticonvenzionali alle sue risorse tattiche con «palla inattiva» e a «zona sporca» per finire a certe esternazioni che lasciavano allibiti i cronisti che a certe esternazioni non erano abituati.
Gessi Adamoli, invece, cronista sportivo di lungo corso nella redazione genovese di Repubblica, di Scoglio era diventato un degustatore, come degustatore si può diventare, dopo lungo apprendistato e molti bicchieri assaporati, di certo bianco di Gavi a lungo invecchiamento, un po'traditore per la sua imprevedibilità ma sempre sincero per la sua non meno assoluta genuinità.
Del suo personaggio Adamoli non si sogna neppure di fornirci una biografia ragionata e cronologicamente affidabile. Il suo lavoro ricorda invece certe tele impressionisticamente appena macchiate qua e là di colore, appena rischiarate da screziature luminose che subito volgono all'ombra. Viste da vicino quel brulichio cromatico appare incongruo e incomprensibile, ma non appena prese le distanze, non appena abituato lo sguardo, ecco che contorni ed immagini acquistano il proprio spazio e quanto pareva caotico ritorna entro i precisi confini del cosmo.
Per chiarire quanto intendiamo dire, prendiamo ad esempio quella «frasi celebri», che Adiamoli distribuisce con sapienza di seminatore lungo i solchi della sua narrazione. Si tratta di massime sul calcio e sul non calcio, sui massimi e sui minimi sistemi, con cui il Professore - se la luna era quella buona - si compiaceva di abbellire le sue interviste, che spesso e volentieri erano lunghi monologhi.
Ebbene, a considerarli in se stessi, a valutarli secondo un criterio puramente logico - tra una promozione ed un siluramento, tra una salvezza al novantesimo minuto ed una vittoria sugli eterni rivali della Samp - quelle elucubrazioni sembrerebbero per l'appunto mere elucubrazioni di un visionario in servizio permanente effettivo.
Gessi Adamoli, Chiamatemi Professore, De Ferrari, Genova 2006, pag. 143, euro 14,00.
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