Cultura e Spettacoli

«Ecco la vita di Totò Riina: come si diventa criminali»

Da giovedì su Canale 5 la serie dedicata al boss mafioso Gli sceneggiatori: «Raccontiamo la banalità del male senza dividere il mondo in buoni e cattivi»

da Roma

Nella prima puntata che andrà in onda giovedì sera su Canale 5, Il Capo dei capi, fiction su 50 anni di storia mafiosa, ha un nemico: la fascinazione del protagonista, Totò u’ curtu, alias il boss più spietato della recente storia di mafia. Viene quasi naturale provare pietà per la sua feroce reazione alla miseria e alla povertà nella quale vivevano lui, la sua famiglia, i suoi amici nella Corleone del dopoguerra. Paese alle porte di Palermo dominato dal boss in camice bianco, il medico Michele Navarra, e dai suoi aiutanti, capitanati da Luciano Liggio. Accanto a Navarra, la Dc di allora, le forze di polizia che massacravano i contadini con le bandiere rosse alle manifestazioni per la terra e la riforma agraria e la società di Corleone, paese zitto e timoroso. Unica eccezione Placido Rizzotto (Giacinto Ferri), il sindacalista socialista ucciso sempre in quegli anni da Luciano Liggio.
Ma il pericolo di fascinazione come quella che si ha guardando Il Padrino o Goodfellas, spiegano i registi Enzo Monteleone e Alexis Sweet, scompare man mano che vanno avanti le sei puntate de Il capo dei Capi, che a partire da giovedi sera andrà in onda ogni settimana su Canale 5. «Questo rischio sparirà quando lo vedremo agire con la ferocia che conosciamo», spiegano. E Claudio Fava, l’eurodeputato catanese della Sinistra democratica che ha partecipato alla sceneggiatura con Domenico Starnone e Stefano Bises, spiega: «Abbiamo voluto raccontare la quotidiana banalità del male, vedere vivere, crescere, operare in maniera criminale queste persone che siamo soliti vedere “recitare” nei processi». Ed aggiunge: «È chiaro però che non sono sempre persone sgradevoli, spregevoli, useremmo male la nostra intelligenza se lo negassimo. Questo film ci aiuterà a capire le zone grigie che ci sono tra noi e loro. Conosceremo la disperata normalità del male».
29 settimane di lavoro, 3500 comparse, 250 ruoli parlanti, un costo di circa 15milioni di euro, 9 ore di proiezione, queste le cifre della produzione del film televisivo della Taodue di Valsecchi-Nesbitt, tratto dall’omonimo libro di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo. Un film su cui punta molto Mediaset, che ha scelto di mandarlo in onda al giovedì, spostando Distretto di polizia al lunedì, e che viene considerato di sicuro successo, sia per la ricostruzione approfondita, sia per il cast. Totò Riina è reso perfettamente nella sua parabola quasi shakespeariana che malgrado il potere, la ferocia, la lucidità, si conclude con l’arresto nel ’93, da Claudio Gioè, attore palermitano che ha garantito «l’accuratezza e la profondità» della storia: «Noi siciliani siamo esigenti quando si tratta di queste storie, perché per noi sono un dramma con cui fare sempre i conti».
Tutti i personaggi della serie televisiva sono veri, tranne Biagio Schirò (Daniele Liotti), l’amico di Totò Riina, che diventa poliziotto. Quasi una sintesi del bene contro il male, anche se si intuisce come spesso la differenza non sia così netta. Vero il questore Mangano (Massimo Venturiello), il generale Dalla Chiesa (Pierluigi Misasi), Falcone (Andrea Tidona), Borsellino (Gaetano Aronica), Giuseppe Montana (Vincenzo Ferrera). L’unica cosa non vera è Corleone, il film infatti è stato girato nel Ragusano. Ci sono tutti i protagonisti della mafia e dell’antimafia di questi 50 anni, e ci saranno anche i politici, da Vito Ciancimino a Giulio Andreotti, «senza equivoci».

Già nella prima puntata Ciancimino appare con i suoi storici baffetti, nel negozio di barbiere del padre, come il futuro laureando in legge amico stretto di Liggio e di Riina, pronto a conquistare Palermo, e non solo.

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