Alitalia, meglio il fallimento dell'accanimento terapeutico

Salvare un'azienda a qualsiasi costo è sempre un'azione controproducente. Nei casi conclamati meglio il fallimento che l'accanimento terapeutico. Con Alitalia bisognerebbe procedere così. È irrazionale tenere in vita una realtà che perde un milione di euro al giorno. Con le casse perennemente vuote. Veniva annunciato un ritorno all'utile nel 2017! Adesso leggo del probabile ingresso al vertice di Luigi Gubitosi, professionista certamente capace. Ma oggi non è più questione di management. Alitalia è un'azienda vecchia. Con flotte superate. Bocciata dal mercato. Insomma, di Alitalia si può fare a meno. Invece la storia racconta di continui tentativi e operazioni di salvataggio secondo l'irrealistico e colpevole adagio che non si può disperdere il valore di un marchio.

Ma di quale marchio stiamo parlando? I brand sono tali quando esprimono storie di successo, fanno tendenza, generano consenso e spirito di emulazione. Virtù estranee all'ormai ex compagnia di bandiera. Ora siamo al punto che di nuovo si domanda un sostegno agli istituti di credito. Cosa pensano davvero i soci Intesa Sanpaolo e Unicredit? Per un'Alitalia tecnicamente fallita. L'ennesimo decollo pericoloso. L'ennesima ristrutturazione che, se tutto andrà male come prevedo, pagheremo tutti noi gli errori di pochi. Ancora una volta! Perciò suggerisco di diffidare del piano di rilancio sbandierato ai quattro venti. E mi pare che neppure il socio forte di Abu Dhabi gli emiri di Ethiad hanno il 49% - sia particolarmente felice delle solite mosse all'italiana: teme che il nuovo piano industriale non sia solido. I conti non tornano. Meglio chiudere.

Tanto i passeggeri hanno già detto come la pensano. Mentre, chi di dovere, si preoccupi e in fretta di gestire nel modo più indolore possibile e razionale la riqualificazione, il ricollocamento e il prepensionamento del personale.

www.pompeolocatelli.it

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