Se, come accadeva in tempi che ora paiono giurassici, crescita economica e inflazione andassero di pari passo, Mario Draghi potrebbe legittimamente aspirare di congedarsi dalla Bce, fra poco meno di due anni, con un bel triplete. Una vittoria su tutta la linea: recessione, deflazione e prezzi rimasti esangui troppo a lungo. Così non andrà. Il presidente dell'Eurotower rischia anzi di passare il testimone, nell'ottobre 2019, nello stesso modo in cui Janet Yellen si è accomiatata dalla Fed: con il rebus-inflazione irrisolto.
Trattasi non di supposizioni, ma di quanto emerge dalle stime rilasciate ieri dalla banca centrale europea. Di un raggiungimento del target del 2% d'inflazione non si vede l'ombra nemmeno a traguardare il 2020, dunque oltre il mandato di Draghi. Forse anche perché il Pil non sarà in grado di mantenere il passo del 2017 (+2,4%) e frenerà progressivamente (2,3% nel 2018, 1,9% nel 2019), fino a fermarsi a un rialzo dell'1,7% nel 2020. I prezzi oscilleranno invece tra un aumento dell'1,5% nel 2017 e dell'1,4% nel 2018, per poi collocarsi all'1,5% nel 2019 e all'1,7% nel 2020. C'è «grande fiducia» che l'inflazione converga verso «l'obiettivo» ma «deve dare ancora dare segni decisi di ripresa», ha spiegato l'ex governatore di Bankitalia durante la conferenza stampa di ieri. La fiducia è però una cosa che talvolta confina col wishful thinking, un pensiero illusorio. Trappola nella quale Draghi non vuol cadere: «Il vero problema - ha ammesso - è la velocità di convergenza» verso la terra promessa del 2%. Non è il solo, peraltro. Perché qui siamo (e saremo) ancora in presenza di un'inflazione che sembra ignorare lo scenario economico sottostante, quello in cui - parole del numero uno della Bce - «i consumi privati sono sospinti dall'incremento dell'occupazione, che a sua volta beneficia delle passate riforme del mercato del lavoro, e dall'aumento della ricchezza delle famiglie». Ma un motivo c'è, e a spiegarlo è lo stesso Draghi: «La risposta dei salari rimane molto, molto più bassa» se confrontata alle recovery del passato ed per questo è impossibile fare «affermazioni azzardate» in tema di prospettive di inflazione.
Qualcuno potrebbe obiettare che proprie da quelle riforme del mercato del lavoro, tendenzialmente deflazionistiche, deriva l'attuale dinamica dei prezzi. Ma, di sicuro, il duello irrisolto con l'inflazione continua ad avere forti implicazioni con la politica monetaria. Ovvero, a obbligare la Bce a mantenere «open ended», cioè senza una fine stabilita, il quantitative easing. La scadenza di settembre 2018, con acquisti mensili ridotti da 60 a 30 miliardi di euro da gennaio, è scritta sull'acqua: Draghi ha ribadito che il piano potrà essere esteso non solo temporalmente ma anche nell'ammontare se il direttivo non riscontrerà un aggiustamento durevole dell'evoluzione dei prezzi.
È quindi una navigazione a vista quelle che attende la Bce nei prossimi mesi. Senza troppo guardare al divaricarsi della forbice tra i tassi di Eurolandia e quelli Usa, destinati probabilmente a salire altre tre volte anche nel corso del 2018. La differenza nelle decisioni di politica monetaria riflette «posizioni diverse nella ripresa economica», si è limitato a dire Draghi.
Alzare il costo del lavoro prima del termine del mandato, come ha fatto la Yellen? «Sarebbe una buona notizia perchè significherebbe che siamo tornati su un percorso in cui l'inflazione è sostenibile». Gira e rigira, alla fine si torna sempre lì.
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