Il Bollettino della Bce è, in genere, una roba un po' asettica. Propone analisi fredde, quasi a sfuggire il cuore dei problemi. Capita, però, che talvolta faccia scattare una nostalgia canaglia. Come quando tocca tasti dolenti mettendo in modalità «on» il confronto fra come eravamo e come siamo. Prima e dopo la crisi. Quella per cui siamo ancora qui ad arrancare, come maratoneti sfiancati, verso un traguardo che si sposta sempre un po' più in là. A dieci anni dalla Grande recessione, contrappuntati dall'infausto transitare nella palude della crisi del debito sovrano, la banca centrale guidata da Mario Draghi ci ricorda come i nostri redditi da lavoro, così come quelli degli spagnoli, non abbiano ancora recuperato i livelli del 2008; nè i consumi si siano agganciati a quella ripresa che ha invece permesso a Germania e Francia di collocare l'asticella delle spese private di un 10% sopra il punto in cui si trovavano un decennio fa.
I motivi? Una prima risposta è l'irrisolto nodo della troppa gente a spasso. A differenza dell'eurozona, dove l'espansione dell'occupazione «a partire dal minimo toccato nel secondo trimestre del 2013 è pari a 8,4 milioni», recita il Bollettino. Insomma, se il quantitative easing ha da un lato reso meno oneroso il peso del nostro debito pubblico e dei mutui e messo per anni la sordina allo spread, dall'altro non è riuscito ad agire da volano per il mercato del lavoro. Un po' come era successo alla Fed, col suo Qe capacissima di aiutare Wall Street a uscire dal disastro dei mutui subprime, un po' meno Main Street, cioè l'economia reale. Ma non solo. È la stessa Bce ad ammettere che le politiche di ammorbidimento monetarie volute da Draghi hanno finito per penalizzare i risparmiatori italiani e quelli spagnoli. Colpa dell'attitudine tricolore (e, sembrerebbe, iberica) al risparmio e all'investimento fruttifero, due virtù che mal si conciliano in un'epoca di tassi bassi. «In Italia - si legge nel documento - il calo nel reddito da interessi è stato molto più ampio in quanto le famiglie italiane detengono un ammontare relativamente ampio di asset che generano interessi e al tempo stesso sono relativamente meno indebitate». In Francia e Germania, dove il risparmio privato è nettamente inferiore, l'impatto è stato minore.
L'assenza di un reddito da interessi e il «calo graduale della ricchezza immobiliare» spiegano in parte la cautela nel consumare, generata peraltro anche dal mancato rinnovo dei contratti, fermi da anni per molte categorie. In queste condizioni, rischia di essere letale per il portafoglio dei consumatori un aumento dell'Iva, in caso scattassero le clausole di salvaguardia. Un pericolo che spinge l'Unione Nazionale Consumatori a proporre la reintroduzione di vecchi strumenti di protezione salariale come la scala mobile.
Il ripetuto confronto nel Bollettino fra Italia-Spagna e Germania-Francia avrebbe forse dovuto indurre la Bce a una maggiore riflessione sulle ragioni di divari così netti.
Salta infatti subito all'occhio una differenza macroscopica: quella tra chi è passato sotto le forche caudine dell'austerità come l'Italia (per non morire di spread) e la Spagna (per salvare soprattutto il sistema bancario), e ha dunque vissuto un impoverimento generalizzato fatto di imprese fallite, produzione industriale decimata, crollo della domanda interna; e chi no, senza peraltro troppo curarsi delle regole europee visto che Parigi ha sforato per anni i parametri legati a deficit e debito rispetto al Pil, mentre Berlino continua a essere fuorilegge in virtù del suo ipertrofico surplus di bilancio.
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