Economia

In Borsa cala il sipario sulla grande industria

Da Lucchini a Indesit fino a Pignone: una lunga ritirata che non è ancora finita: presto toccherà ad Italcementi

In Borsa cala il sipario sulla grande industria

C'era una volta la grande industria a Piazza Affari. La Borsa delle azioni Fiat, delle Pirelli, delle Italcementi, delle Montedison prima e delle Edison dopo, delle Falck. C'era e rischia di non tornare più in un listino ormai occupato da banche, finanza, partecipate statali e qualche utility. L'ultimo grande addio si celebrerà oggi con l'uscita di Pirelli, che aveva fatto il suo ingresso in Borsa novantatré anni fa, nel 1922, con Pirelli Sapa. Poi, nel 1927, era sbarcata sul listino la SpA. Quelle che i vecchi broker, ai tempi, avevano battezzato Pirellina e Pirellona, vennero poi unite insieme in un'unica quotazione nell'agosto del 2003. Le ragioni del delisting sono ormai note: il gruppo di pneumatici lascia la Borsa con il riassetto targato ChemChina e il successo dell'Opa Marco Polo. Alla Bicocca resteranno invece i pneumatici per auto e moto, ed è già previsto che questa Pirelli Tyre possa tornare entro quattro anni sul listino milanese, stando agli accordi che garantiscono anche il mantenimento in Italia della sede e del centro ricerca e sviluppo, oltre ad indicare per la guida Marco Tronchetti Provera come ceo e vice presidente, con Ren Jianxin alla presidenza. Sperando sia un arrivederci, dunque, Milano saluta il simbolo dell'imprenditoria locale. Ma non è il primo, né sarà l'ultimo commiato. Pensiamo al «tondino» della Lucchini, la regina bresciana dell'acciaio ceduta alla russa Severstal e ritirata dal listino italiano per traslocare su quello di Mosca, o alla Indesit (ex Merloni Elettrodomestici) sparita a dicembre 2014 dopo che il colosso americano Whirlpool ha piantato la bandierina su quello che era l'ultimo dei produttori italiani del «white goods», dell'elettrodomestico bianco. O ancora a delisting «pesanti» del passato come quello del Nuovo Pignone, a metà degli anni Novanta, con il passaggio dall'Eni alla General Electric. Certo, a Piazza Affari è ricomparso l'antico blasone, associato alla Falck Renewables che ha preso il posto della controllata Actelios dopo l'incorporazione di tutte le attività di famiglia nelle rinnovabili. Ma il gruppo quotato non è più quello di prima e la dinastia resta divisa sullo sviluppo: da una parte gli stessi Falck, azionisti di maggioranza, dall'altra il ramo dei Marchi, cugini e soci di minoranza. Si prospettano, inoltre, nuove uscite imminenti. Presto toccherà a un altro nome storico dell'industria lombarda, quella Italcementi della famiglia Pesenti, finita nelle mani della tedesca Heidelberg. Tempi solo un po' più lunghi per l'Opa su Ansaldo Sts - venduta da Finmeccanica alla giapponese Hitachi -, altra azienda destinata a lasciare la Borsa italiana. Che ora deve fare i conti anche con una perdita miliardaria in termini di capitalizzazione. Il gruppo di pneumatici vale infatti più di 7 miliardi, la multinazionale del cemento dei Pesenti 3,5, Ansaldo Sts quasi 2. Si spera nell'arrivo a Milano di Ferrari, nei primi mesi del 2016, ma per ora anche il Cavallino ha preferito sgommare sul listino di Wall Street. Così come Fiat, pardon Fca, che ha testa e mercato più italiano che nostrano. L'ad di Borsa Italiana, Raffaele Jerusalmi, per il 2016 ha annunciato 35-40 Ipo, comprese le quotazioni su Aim, il mercato alternativo dei capitali. Tra queste Enav e Ferrovie, forse Valentino e Versace. Ovvero partecipate statali e griffe.Nel frattempo, chi si avvicina al capoluogo lombardo percorrendo le autostrade continua a leggere il cartello con su scritto: «Milano, Industria, Commercio, Cultura, Arte». Nulla da eccepire sulla Cultura, né sul Commercio, mentre la prima parola che dovrebbe rappresentare la città è desaparecida a Piazza Affari. Resta l'Arte, come quella del «dito» alzato da Cattelan proprio davanti alla sede della Borsa.

Che beffa.

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