di Marcello Zacché
I conti semestrali del Sole 24 Ore, approvati ieri, hanno confermato le peggiori aspettative: come hanno messo nero su bianco gli amministratori, è addirittura a rischio la continuità aziendale. Ora servono un accordo con le banche e un successivo aumento di capitale. E il gruppo può andare avanti perché le banche hanno accettato e l'azionista Confindustria ha subito dato la sua disponibilità. Nel dettaglio, il rosso del semestre al 30 giugno è stato di 49,8 milioni. Ma, soprattutto, quello che emerge è un quadro totalmente diverso rispetto a quello prospettato in questi ultimi tre anni dalla precedente gestione: in presenza di perdite croniche (dal 2008 il bilancio è in rosso), l'inversione di tendenza annunciata con l'arrivo della presidenza di Benito Benedini, nel 2013, non c'è mai stata. Anzi, il gruppo, sotto la guida dell'ad Donatella Treu, non ha mai smesso di bruciare cassa fino a ridurre il patrimonio a 28 milioni. Per questo il consiglio ha praticamente riscritto il bilancio 2015, rideterminando i valori della semestrale. Per esempio, l'ebitda positivo per 0,3 diventa negativo per 2,8 milioni; il patrimonio netto di 87,2 scende a 78,8 milioni. Quanto dichiarato da Benedini in varie occasioni («I conti stanno tornando alla piena salute, la gestione genera cassa senza più bruciarla», nel marzo 2015) suona oggi assai stonato. E induce a pensare che la rivoluzione iniziata ieri con questa grande pulizia di bilancio sia solo all'inizio, anche per quanto riguarda il potente direttore del quotidiano, Roberto Napoletano, senz'altro molto legato alla precedente gestione, di cui rappresentava un punto fermo. Di sicuro il futuro passerà dal piano industriale 2016-2020 che l'ad Gabriele Del Torchio ha ieri accennato e che arriverà in ottobre. Le linee guida prevedono taglio dei costi ed efficientamento; cessione di attività in perdita; flussi di cassa positivi a partire dal 2019.
Tutto ciò fa oggi del Sole, dopo il caso Rcs, il secondo grande malato dell'editoria nazionale. Un malato grave sia per la dimensioni assolute (300 milioni di fatturato, 1.230 dipendenti), sia per l'imbarazzo che si riflette sul suo azionista di controllo, la Confindustria, che lo ha quotato in Borsa proprio quando il gruppo ha iniziato a macinare perdite, bruciando 400 milioni in 8 anni e provando anche a dare rappresentazioni diverse. Tanto oggi si ritrova con il fiato sul collo della Consob e della procura di Milano.
A voler fare pulizia è stato Del Torchio, che ieri è riuscito a far passare in cda la sua linea dura, anche mettendo sul piatto l'ipotesi delle dimissioni. Uno scenario che per Del Torchio era quasi un atto dovuto, visto che con una lettera della Consob che chiedeva rigore di bilancio da un lato, e con il rischio dell'intervento della magistratura dall'altro, l'ad non poteva rischiare di infilarsi in brutti guai per colpe non sue. Ma il cda non è stata una passeggiata, perché ad approvare una semestrale così pesante per le eredità pregresse c'erano anche soggetti legati alle precedenti gestioni. Dal presidente Giorgio Squinzi, fino a maggio al vertice di Confindustria e grande elettore di Benedini; a Marcella Panucci, direttore generale dell'associazione scelta da Squinzi e come tale già in cda dal 2013; e Luigi Abete, potente past president, anch'egli già nel vecchio consiglio.
Del Torchio però, sulla linea della «pulizia» ha trovato sia l'appoggio dei consiglieri indipendenti, sia quello dei «nuovi» entrati, tra cui un peso massimo come Giampiero Pesenti. Mentre l'unica alternativa, quella delle dimissioni a quel punto dell'intero consiglio, rischiava di trascinare il gruppo verso una crisi gestionale, finanziaria e reputazionale senza precedenti.
Per questo un tentativo che avrebbe avuto la regia dello stesso presidente di Confindustria Vincenzo Boccia per votare contro non ha avuto effetto per mancanza di numeri. Ma va da sé che dal consiglio di amministrazione di ieri esce una Confindustra ferita e più lacerata che mai.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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