Milano A otto anni di distanza dall'esplosione dello scandalo dei dossier Telecom, una costola di quella indagine ha portato la Procura di Milano a chiedere la condanna dell'uomo che sedeva al vertice della compagnia telefonica: Marco Tronchetti Provera.
Delle attività di dossieraggio illecito a carico di mezzo mondo attuate dall'Ufficio security di Telecom, guidato dall'ex carabiniere Giuliano Tavaroli, Tronchetti ha sempre sostenuto di sapere poco e nulla: in particolare sui metodi con cui hacker e investigatori raccoglievano le informazioni. Almeno in un caso, sostiene invece il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, Tronchetti sapeva tutto: sapeva che i «Tavaroli boys» erano intervenuti con brusca efficacia nello scontro commerciale che all'epoca contrapponeva in Brasile l'azienda milanese con gli imprenditori locali Daniel Dantas e Carla Cico. Dantas e Cico scavarono su Telecom, attraverso il colosso mondiale delle indagini private, Kroll; il Tiger Team di Tavaroli replicò penetrando con irrisoria facilità nei computer della Kroll, e risucchiando i dati. «Questi sono i fatti e i fatti sono testardi», dice Robledo. E dei fatti accertati, per il pm, fa parte anche quanto lo stesso Tavaroli racconta che accadde dopo: una riunione con il manager Francesco Chiappetta e Francesco Mucciarelli, legale di Telecom. «Io proposi di compendiare il materiale in un dvd da far recapitare in forma anonima al presidente Tronchetti o meglio alla sua segretaria. Subito ci recammo nell'ufficio del dottor Tronchetti. Il presidente accettò la proposta, chiamò la segretaria Elena Longaretti e le disse che sarebbero arrivate informazioni in forma anonima».
Se ci fosse solo questo racconto di Tavaroli, spiega Robledo, non si potrebbe chiedere la condanna di Tronchetti. Ma ci sono «riscontri e prove documentali». Reato di ricettazione, dunque: per il quale il pm chiede la condanna di Tronchetti a due anni, comunque coperti dall'indulto. Tronchetti, assente in aula, affida la sua versione a una memoria dell'avvocato Roberto Rampioni, in cui si parla di «marcate illogicità» del procedimento e di «grave lacunosità» della tesi accusatoria definita una «infelice, zoppa ipotesi».
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