La Cina ci è vicina, forse un po' troppo. Forte di un potere d'acquisto enorme, l'ex Celeste Impero ha fatto shopping a suon di miliardi in ogni angolo del mondo sfruttando un frainteso concetto di libero mercato, l'assenza di regole e un generalizzato laissez-faire. La musica, però, potrebbe cambiare. L'Europa sembra infatti intenzionata a dare un giro di vite alle acquisizioni da parte di gruppi extra-Ue di aziende comunitarie. Secondo il Financial Times, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, annuncerà in settembre alcune misure destinate a spuntare gli artigli del Dragone in fatto di merger&acquisition. Misure che non avranno comunque l'impronta vetero-protezionistica che Donald Trump vuole imporre a un mondo globalizzato, ma serviranno ad arginare un fenomeno visto con crescente preoccupazione soprattutto da Italia, Germania e Francia.
Un asse a tre che si era mosso già lo scorso febbraio con una lettera congiunta inviata al commissario per il Commercio, Cecilia Malmström, in cui veniva chiesta una maggiore blindatura delle aree strategiche, le più appetite dalle corporation cinesi, in particolare quelle sotto il controllo statale.
Le cifre, del resto, sono la miglior cartina di tornasole per capire quali proporzioni abbia assunto il fenomeno nel Vecchio continente. Un rapporto del Mercator Institute for China Studies and the Rhodium Group ha stimato che i soli investimenti diretti cinesi nell'Unione sono stati pari a 35 miliardi di euro nel 2016, una cifra superiore di due terzi rispetto a quella dell'anno precedente. Un iperattivismo in parte legato alle forti disponibilità cash delle imprese orientali, e in parte necessario per aggirare i controlli introdotti da Pechino sul movimento di capitali. E anche se lo scorso anno gli investimenti cinesi in Italia hanno subìto una sensibile battuta d'arresto, con un controvalore di poco superiore al miliardo (-85% rispetto al 2005), va ricordato la straordinaria progressione realizzata dal 2010, quando ancora non si superavano i 14 milioni di dollari, al 2014 (4,9 miliardi); fino al picco di quasi otto miliardi toccato nel 2015. E in altre parti d'Europa, nel 2016, Pechino ha piantato le proprie bandiere a suon di miliardi: 12 in Germania, 10 in Gran Bretagna, 7,6 in Finlandia.
Ecco perché vari Paesi hanno invitato Bruxelles a darsi da fare per mettere a punto uno strumento di «vetting», cioè di verifica delle procedure d'acquisto, più rigoroso perlomeno per le operazioni in comparti-chiave come l'energia, la manifattura high-tech e le infrastrutture. Lo scopo: evitare che lo shopping diventi il mezzo per far guadagnare un vantaggio competitivo in termini di know-how avanzato. Il problema, però, è che attualmente solo 13 delle 28 nazioni dell'Unione hanno introdotto sistemi formali per esaminare takeover stranieri e determinare se mettono a rischio la sicurezza nazionale. Il piano Juncker vorrebbe infatti incoraggiare un migliore coordinamento dei sistemi di screening così da poterne allargare l'utilizzo.
Compito non facile, vista l'opposizione dei Paesi nordici, della Spagna e del Portogallo. Probabile quindi che si proceda con linee guida non obbligatorie per migliorare l'uniformità delle procedure, per poi arrivare a un sistema europeo su cui dovrebbero trovare un accordo i singoli governi nazionali.
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