Azia, la nipote d'arte che generò un impero

Nipote di Cesare e madre di Ottaviano, Azia Balba Caesonia non guidò eserciti né pronunciò discorsi, ma dal suo ventre nacque Augusto. Così una donna ai margini consegnò Roma all’impero

Azia, la nipote d'arte che generò un impero

Non si chiama Giulia come la madre e neppure come la prozia che sposò Caio Mario. Non si chiama Giulia come la cugina, l’unica figlia dello zio Cesare, la ragazza della pace, la donna che fece innamorare il grande Pompeo. Non si chiama Giulia come la nipote, scandalosa, che non ha fatto in tempo a conoscere e la figlia di lei, che portava lo stesso nome della madre. Giulia, Giulia, Giulia, il suono più banale e ricorrente per le donne di una schiatta che pretende di discendere da Ascanio, il figlio di Enea e Creusa, il fondatore di Alba Longa, la capitale dei popoli latini. Ascanio con il destino già scritto nel sangue e che i romani conoscono come Iulio. È da lì, dicono, che arrivi la gens Julia. Lo dice Virgilio, in realtà, per compiacere l’uomo da cui dipende il destino di tutti. Ecco, quell’uomo è suo figlio. Solo che lei non si chiama Giulia, o Julia, ma porta il segno di suo padre, Marco Azio Balbo da Ariccia, figlio della sorella di Pompeo.

Immagina allora una sala di Roma, una di quelle che sanno di marmo freddo e odore di alloro. Fuori, il sole acceca il cortile e scolpisce ombre lunghe sulle colonne. Dentro, una donna siede composta, lo sguardo fermo e silenzioso, come chi sa di essere parte di una partita più grande di sé, ma non osa ancora credere che la sua pedina possa cambiare il finale. Si chiama Azia, o meglio Atia Balba Caesonia. È nipote di Gaio Giulio Cesare, figlia della sorella minore Giulia. Porta nel sangue l’orgoglio della gens Julia, ma la vita l’ha collocata in un angolo di quella scena dove gli uomini recitano i ruoli da protagonisti e le donne, spesso, restano in silenzio. Eppure, sarà proprio lei, senza volerlo, a scrivere una delle svolte più radicali della storia di Roma.

È l’intreccio che fa il destino. Azia è il ventre dove i padroni di Roma si incontrano. Cesare è lo zio diretto, il fratello della madre, ma sua nonna è la sorella di Pompeo, quindi Pompeo è il suo prozio. È come se il dna di Roma confluisse nel suo sangue. Non è neppure un caso che sua figlia Ottavia sia per un certo periodo la moglie di Marco Antonio. Azia è patrizia per madre, plebea per padre, sposa il rampollo di una ricca famiglia equestre e raccoglie dentro di sé tutte le strade dell’urbe. Il suo destino è chiaro: generare l’impero. È la fine della repubblica, l’umiliazione del Senato e l’inizio di una metamorfosi che della vecchia Roma conserva solo la facciata, una parvenza, un’illusione.

Non è una bellezza sfacciata, ma ha una grazia ferma, discreta, il portamento di chi conosce il peso del nome che porta. È stata sposata due volte: la prima con un certo Gaio Ottavio, uomo stimato e di rango equestre, destinato a non lasciare un segno enorme nella memoria collettiva; la seconda con Lucio Marcio Filippo, senatore e console, figura di garanzia in tempi turbolenti. Ma il vero seme della storia lo pianta il primo matrimonio. Da Gaio Ottavio, Azia ha un figlio: Gaius Octavius Thurinus. Un ragazzo minuto, con occhi che osservano e non dimenticano, un fisico che non promette l’eroismo delle armi ma un intelletto che sa calcolare. Cesare, quando lo incontra da adolescente, vede qualcosa che gli altri non notano. E lì, già, il destino ha cominciato a tessere la sua tela.

Azia vive in una Roma che cambia pelle di anno in anno. Il potere è un vulcano in eruzione continua. Le guerre civili hanno ridisegnato le alleanze, Pompeo è caduto in Egitto sotto la lama di un sicario, Cesare è tornato padrone e dittatore a vita. La morte di un’altra donna, la cugina Giulia — figlia di Cesare e moglie di Pompeo — ha cancellato il legame di sangue e matrimonio tra i due grandi rivali, accelerando la frattura. È una perdita che Roma piange poco ma che muta gli equilibri. Senza quella morte, forse la storia avrebbe preso un’altra strada. Per Azia, invece, è un tassello che apre spiragli impensati.

Non si sa quanto lei l’avesse calcolato. Probabilmente nulla. In una città dove la politica è un gioco di maschi, le donne tramandano il potere in silenzio, attraverso i figli. Azia ha questo dono: un figlio che, agli occhi del dittatore, somiglia a una promessa. Cesare non ha eredi diretti maschi legittimi; c’è solo il giovane Bruto, figlio della sua amante Servilia, ma il legame è incerto, il carattere ambiguo. Ottaviano, invece, è familiare, è sangue sicuro, è malleabile. Cesare lo prende sotto la sua ala: lo invita nelle sue campagne militari in Spagna, lo mostra ai suoi generali, lo educa a osservare il potere da vicino.

Azia resta sullo sfondo, ma è presente. Lo accompagna nelle prime uscite pubbliche, lo sostiene quando, a soli diciotto anni, il ragazzo si trova a dover ereditare non solo un patrimonio immenso ma soprattutto il nome: Gaio Giulio Cesare Ottaviano. È un passaggio quasi invisibile per chi lo guarda dall’esterno, ma epocale per Roma. L’assassinio alle Idi di marzo del 44 a.C. non spegne la luce dei Cesari: la trasferisce, attraverso il testamento, a quel giovane che nessuno considerava un leader, ma che diventerà Augusto, il primo imperatore.

Se c’è un momento in cui Azia capisce di aver consegnato al mondo qualcosa di irreversibile, è forse quando vede suo figlio tornare a Roma dopo l’assassinio dello zio. I giochi sono aperti, Marco Antonio e i congiurati si affrontano per il futuro della Repubblica, e il giovane Ottaviano sceglie con freddezza da che parte stare, bruciando tappe e diffidenze. Non è solo l’erede di Cesare: è l’uomo che saprà trasformare la dittatura personale in un regime stabile, con un nome nuovo e una maschera repubblicana che durerà secoli.

Azia morirà nel 43 a.C., troppo presto per vedere la corona invisibile posarsi sul capo di suo figlio. Ma il mondo, nel frattempo, ha già cambiato traiettoria. Lei resterà la madre del primo imperatore di Roma, la donna che, senza muovere un esercito né arringare il popolo, ha permesso alla gens Julia di trasformarsi nella dinastia dei Cesari.

Il segno finale è il luogo dove il destino si compie, verso l’imbocco meridionale del golfo di Ambracia, in quel mediterraneo dove si bagna la Grecia. È lì che Ottaviano si gioca tutto in una battaglia navale. È una mattina di aprile del 31 avanti Cristo e il mare è l’urlo dei remi e il clangore dei rostri. Ottaviano ha scelto la pazienza e la strategia, Marco Antonio l’orgoglio e l’illusione di Cleopatra. Le flotte si fronteggiano come due città galleggianti. L’aria sa di pece, sudore e paura. È la guerra che decide il futuro del mondo. Non più repubblica, non ancora impero. Gli uomini remano fino allo stremo, le navi si urtano, s’incendiano, affondano. Vince chi resiste di più, chi sa leggere il vento e il destino. Da qui parte la leggenda di Augusto, e tramonta per sempre l’ombra di Antonio. Roma cambia pelle, e lo fa tra le onde. Ottaviano dovrà ringraziare il suo comandante, l’uomo che vince le battaglie nel suo nome, Marco Vipsanio Agrippa. Ma il luogo della vittoria porta il segno di sua madre. Azio.

E in quella sala iniziale, che possiamo ancora immaginare, la vediamo chiudere gli occhi con un sorriso leggero. Non sa — o forse sì, e non lo dice — che il bambino che ha tenuto tra le braccia un tempo avrà in mano le chiavi dell’impero più grande del mondo. Roma crede di vivere l’ennesimo capitolo delle sue lotte interne.

Ma in realtà, il copione è cambiato, perché le storie, spesso, non le scrivono i protagonisti che pensiamo, le scrivono anche le ombre silenziose che restano dietro le quinte, come Azia, nipote di Cesare, madre di Augusto, regina invisibile di Roma.

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