
«Eravamo molto più giovani, eravamo giovani e forti. E non siamo morti». Giorgio Mulé, oggi deputato azzurro e vicepresidente della Camera, nell’agosto del 1995 era il giovane vice della redazione romana del Giornale, in piazza di Pietra, quando nel caldo di quell’estate capitolina vide la luce Affittopoli.
Non siamo morti, per fortuna, e non è morto nemmeno il Giornale.
«Infatti non parlo della morte fisica, ma parlo della vitalità di un giornalismo che dopo 30 anni da quell’estate ha dimostrato di saper resistere sempre alle consuete minacce, a tutto quello che dovettero subire i giornalisti del Giornale, al dileggio, all’accusa di essere una macchina del fango, arrivata in epoche successive. È un modo di fare giornalismo che nel ’95 trova la sua sublimazione in quell’inchiesta. Che era un’inchiesta di puro giornalismo: non si affidava a corvi, a soffiate, a volti contraffatti, a voci contraffatte. Ma poteva contare sulla capacità di un gruppo di giovani, valenti, straordinari giornalisti che fecero al meglio che potevano fare il loro lavoro. Ed è stata una grande lezione di scuola di giornalismo, che peraltro negli anni poi si è ripetuta con regolarità, ogni volta che ci sono stati casi o scandali in cui un giornalismo testardo e tenace ha dimostrato di saper fare il suo lavoro».
Un modello molto diverso da quello odierno delle veline delle procure.
«Quando io penso a quel periodo penso a un periodo diciamo romantico, passatemi il termine, del giornalismo, un periodo in cui il raggiungimento del risultato era dato soltanto dalla forza delle suole delle scarpe e dalla tenacia del cervello. Per cui non c'erano né veline né velone, tantomeno persone che perseguivano un interesse diverso da quello della ricerca della verità. Perché tutto era basato su fatti acclarati e concreti che non avevano bisogno di “deviazioni dal giornalismo”, come quelle a cui purtroppo molte volte ancora oggi assistiamo».
Verifiche fatte sui citofoni, palazzo per palazzo, rompendo le scatole a ministri e sindacalisti, ma anche a inquilini e portieri, davvero un modello vecchia scuola.
«Certo. Anche perché parliamo di un periodo in cui internet era ancora agli albori. Si cominciavano a vedere i primi motori di ricerca e in redazione noi, a Piazza di Pietra, eravamo appena passati ai computer, ma in una fase ancora lontana da una vera transizione digitale. Quindi era tutto affidato ancora alla capacità di mettere insieme carte, e io lì ricordo infatti interi stanzoni pieni di carte, di fotocopie. Come successe poi anche per la legge Mosca, e per altre inchieste che facemmo in quel periodo. Era tutto affidato alla capacità di incrociare e di saper leggere quei dati estratti da migliaia di pagine, e poi di andare a fare delle verifiche sul campo. Quindi è un modello di giornalismo rigoroso nell’accertamento, nella validazione dei fatti e nello scrivere quello che poi era la pura, semplice e, apro parentesi, schifosa verità».
Ricorderai bene che nel giro di pochi giorni, infatti, finì per essere coinvolta dall’impresa l’intera redazione romana.
«Fu davvero un’impresa giornalistica straordinaria, questa inchiesta. Un’impresa in cui un gruppo di persone si ritrovò insieme. E non per mettere la propria firma e per fare la corsa - come spesso succede ai giornalisti - nel mettere cappello, legittimamente per carità, su uno scoop, su una notizia. Fu invece uno straordinario lavoro di squadra in cui c'era una solidarietà tra colleghi che si sostanziava nell’aiutarsi l’un l’altro, solo e soltanto nel fare in modo che il Giornale, non una o l’altra firma, avessero il loro momento di gloria. Fu il momento di gloria dei cronisti di un quotidiano che sotto una guida coraggiosa, che era quella di Vittorio Feltri, si trovarono sotto quella bandiera a lavorare insieme, uniti, in un modello di giornalismo che per certi versi anticipava i tempi. Oggi leggo di pool investigativi, di pool giornalistici. Ecco, diciamo che quello lì dell’estate del 1995 fu un pool ante litteram nel quale non vi era la corsa a fare lo sgambetto al collega, ma vi era la corsa per arrivare insieme al traguardo».
C’è in particolare qualche episodio, qualche momento di quell’inchiesta che ti è rimasto in mente?
«Se ti dicessi qualche nome eccellente pizzicato durante Affittopoli farei un torto a qualcuno o passerei per voler magari colpire qualcun altro. Certo, Massimo D’Alema ne divenne suo malgrado il simbolo, in negativo e anche in positivo visto che lui ebbe la capacità di cogliere il senso della responsabilità e non si nascose: fece un minimo di resistenza, ma poi andò via. Non era certo il solo, ce n’erano altri, tanti altri. Non mi sembrerebbe giusto ricordare un caso particolare. Però, se posso, una cosa che ricordo di quel periodo c’è».
Di che cosa si tratta?
«È una foto che conservo ancora. Un’immagine che guardo, che ho sempre davanti e anche nella mia mente. Ci sono sette persone in fila, una a fianco all’altra, come in una foto segnaletica in stile “Soliti sospetti”. La scattammo in redazione, a Roma, in quell’estate del 1995.
Ci sono, tra gli altri, Michele Lella e Maurizio Sgroi, c’è Gianmarco Chiocci e un po’ tutto il gruppo di quelle persone che avevano iniziato quel formidabile lavoro di squadra. E quando li riguardo oggi, quando rivedo quella foto, lo faccio con molta nostalgia, perché rivedo un periodo che mi azzarderei a definire epico. Sia del giornalismo che della nostra vita».